mercoledì 5 aprile 2023
La nuova traduzione di Silvia Bre conferma che non era una donna triste e inadatta alla vita sociale. Empatica, ironica, fine lettrice della Bibbia: qual è il vero «abisso» sopra cui cammina?
Emily Dickinson in un dagherrotipo del 1847

Emily Dickinson in un dagherrotipo del 1847 - WikiCommons

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La vita di Emily Dickinson è un mistero a tutti gli effetti. Nata ad Amherst, in Massachusetts, il 10 dicembre 1830, cresciuta in una famiglia puritana nella temperie dei revival religiosi, sin da piccola Emily dimostra doti letterarie e un delizioso anticonformismo. Legge Long-fellow ed Emerson, assume con facilità canzonatoria posizioni dissonanti, stringe un’imperitura amicizia con Susan Gilbert, che sarà sua cognata (sposerà infatti il fratello Austin nel 1856), «maestra severa», prima lettrice e destinataria privilegiata delle poesie. In un frammento cartaceo le scrive: «Cara Susan, a eccezione di Shakespeare, tu mi hai insegnato più cose di qualsiasi altro essere vivente». Nel 1855 la Dickinson compie un viaggio (uno dei radissimi spostamenti da Amherst) a Washington e Philadelphia con il padre Edward, avvocato e senatore dello stato del Massachusetts. Al 1861 risale il famoso e controverso “terrore”: secondo alcuni critici, un crollo nervoso sintomo di ansia sociale o epilessia che sarebbe all’origine di un’autosegregazione, una volontaria clausura nella camera al piano superiore della casa paterna, luogo in cui compose quasi 1.800 liriche, oltre a lettere, biglietti, abbozzi vari.

Ma è davvero tutto qui il passaggio terrestre (morì nel 1886) di Emily? Davvero il suo segreto è l’«Abisso» che «non ha Biografi», il gesto della chiave rivolto alla nipote Martha, «basta solo un giro, ed ecco la libertà»? L’abito bianco, simbolo di purezza virginale? Il mito creato attorno alla Dickinson, complice la prima edizione dei Poems – pubblicati nel 1890, quattro anni dopo la morte dell’autrice, e curati da Mabel Loomis Todd e Thomas Higginson –, forse non ci ha consentito di guardare pienamente al di lei fragoroso sciabordio interiore ed esteriore.

Come già osservò la Gilbert nell’elogio funebre apparso sullo “Springfield Republican”, Emily non era una fanciulla «delusa dal mondo» o, peggio, «inadeguata alla vita sociale». Briosa, ironica, informatissima sui fatti, empatica, fine conoscitrice della letteratura e della Bibbia, giardiniera provetta e abile cuoca: «Emily Dickinson era una donna in costante contatto con la vita: quella del pensiero, e dell’anima, così come quella del corpo», osserva Sara De Simone nel contributo introduttivo alla nuova traduzione delle Poesie a cura di Silvia Bre (Einaudi, pagine 740, euro 14,00), che raccolgono una fetta della vasta produzione in versi, e cioè oltre 350 componimenti.

Insomma: tra eliotropi, camelie, piante esotiche e biscotti di pan di zenzero o marmellata di lamponi, Emily ha più l’aspetto di un’erudita desperate housewives, eccentrica e impetuosa, sempre psicologicamente ed emotivamente coinvolta nelle ampie relazioni quotidiane (Susan, la sorella Lavinia, Austin e i numerosi corrispondenti epistolari), ma ancor di più implicata in ciò che Marcel Proust, nel saggio Contro Sainte-Beuve, chiama «io diverso»: diverso, ossia, «da quello che si manifesta nelle nostre abitudini, nei nostri vizi. Un tale io, se vogliamo cercare di comprenderlo, possiamo attingerlo solo nel profondo di noi stessi, sforzandoci di ricrearlo in noi». È quindi inutile e probabilmente nocivo applicare il metodo storicista della caccia al cenno biografico nell’opera di Dickinson: ogni cosa è trasfigurata in una «discesa negli abissi del sé» (Guido Fink) che evidenzia l’assoluta preminenza della consciousness sul dato fattuale.

Nel vibrante canzoniere sono molti gli accenti di questo tipo, che tradiscono il gusto per il sommovimento intimo: «La differenza tra la disperazione / e la paura – è come quella / tra l’istante del naufragio / e quando il naufragio è stato – // La mente è liscia – nessun movimento – / pacificata come l’occhio / sulla fronte di un busto – che sa d’essere – incapace di vedere –». Due i contrassegni d’ineludibile marca dickinsoniana: la forma metrica popolare dell’inno protestante e il famigerato “trattino”, spia di un’inquietudine ritmica, di una metafisica al telegrafo.

Assieme alle incandescenti dediche amorose («Che sia la mancanza – a innamorarti – / anche se il divino – / non sono / altro che io –») e allo schizzo paesaggistico («I lillà – curvi negli anni – / sbanderanno carichi di viola – / le api – non sdegneranno il ronzio – / borbottato – dalle antenate –»), enorme è l’importanza del motivo religioso. D’impasto calvinista con glosse agostiniane ed emersoniane, la teologia di Dickinson è un cavo teso sul precipizio della salvezza e dell’elezione incondizionata, della caduta totale e della grazia irresistibile, non senza qualche nota d’irriverente ardore: «Io so che Lui esiste. / Da qualche parte – in silenzio – / ha nascosto la sua rara vita / al nostro rozzo sguardo. // È il gioco di un’istante – / è un agguato amoroso – / giusto perché la gioia / faccia la sua sorpresa!». La scattante e pur lieve traduzione di Silvia Bre ci restituisce così tutta la mobilità sismica della poetessa americana, finanche nei suoi momenti più noti. «Che l’amore è tutto quanto c’è / è tutto quanto sappiamo dell’amore».

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