mercoledì 9 febbraio 2011
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«Ormai l’esodo della popolazione italiana di Pola si può considerare ultimato: Pola non vive più, la sua attività è ora limitata "alla giornata" poiché attende trepida il compimento del suo destino. Può, davvero, considerarsi una città morta. Severo ammonimento questo, a chi baratta Paesi e genti, così, senza ponderare i profondi legami storici e gli alti valori spirituali delle popolazioni italiane». È il 14 aprile 1947. Il prefetto Mario Micali, responsabile per la Venezia Giulia dell’Ufficio per le zone di confine (Ucz), scrive alla Presidenza del Consiglio dei ministri relazionando sul secondo esodo degli italiani dai territori assegnati alla Jugoslavia: 28.550 "deportati", come qualcuno li chiamò. In precedenza altri 20 mila profughi si erano spostati al di qua del confine. E ai due ne seguì un terzo, più spontaneo fino al 1956, con altre 4 mila persone in fuga. Pola aveva allora circa 35 mila abitanti. Fu, quindi, praticamente svuotata (tanti profughi scappavano anche dall’interno. Ecco perché Micali scrive che Pola non vive più. «A tutt’oggi – si legge nel suo rapporto – dal porto di Pola, sono partite, verso il suolo patrio, circa 28.000 persone: tutte famiglie che debbono riorganizzare la loro vita e, se occorre, ricominciarla; che hanno abbandonato, con serena, decisa fermezza ricordi, averi e, quel che più conta, i loro cari sepolti nelle verdi colline fra l’Istria e il mare. E tutto questo non per movimento impulsivo o per sollecitazioni più o meno opportune, ma dopo ben ponderato e maturato esame: vi si è ragionato sopra, si è ben considerata la tremenda decisione e si è visto che la Patria vale più della casa o del terreno tramandato ai posteri e che ora si deve abbandonare». Cercato per lunghi decenni, l’archivio dell’Ucz è stato recuperato solo nel 2008. La rivista Qualestoria ne pubblica un ampio dossier, introdotto da Raoul Pupo, docente all’Università di Trieste e vicepresidente dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. Un capitolo è dedicato a Pola e al suo esodo; lo cura Roberto Spazzali scavando intorno alla comunicazione del prefetto Micali. Dall’archivio si viene tra l’altro a sapere che l’esodo tra il 1946 ed il 1947 è costato all’Italia 710 milioni di lire per Pola, 400 per Trieste, 71 per Gorizia e 17 per Udine. Nei due anni successivi le spese per Pola scesero a 175 milioni, mentre quelle per Trieste aumentarono a 700. Tra il 1946 e il 1949 i partiti politici italiani ricevettero da Roma 1.324 miliardi di lire. Ben poco, comunque, al confronto con i valori lasciati a Pola dagli italiani. Micali scrive di «qualche decina di miliardi». Eppure tutto è stato abbandonato con composta fierezza e senza recriminazioni. «Quale pena ritornare adesso a Pola, in questa città che – commenta il prefetto – era così gioiosa, così piena di vita. Né bastano a ridarle soffio vitale i circa 300 nuovi cittadini colà giunti dall’Italia e dalle Zone A e B». Quali sono i motivi di quella che solo apparentemente è una fuga? «Ritengo di non errare affermando che su tale irrefrenabile decisione abbiano notevolmente influito i 60 giorni di occupazione jugoslava della città: comunque, già da quando ebbero inizio le lunghe trattative per la compilazione del Trattato di pace, la popolazione polesana fece sapere che non avrebbe sopportato di essere divisa dall’Italia». Dagli inizi del 1944 Pola era stata sottoposta a dure prove di guerra. Solo tre mesi dopo l’occupazione tedesca, con la cattura di oltre 20.000 soldati e marinai italiani provenienti da Fiume e dalla Dalmazia, subiva il primo violento bombardamento alleato. Dal 9 gennaio 1944 al 5 maggio 1945 la città venne bombardata per 23 volte dall’aviazione anglo-americana, causando la morte di oltre 250 persone e il ferimento di altre 550. «Le bombe causarono la fuga di numerose famiglie, che dovettero cercare riparo da parenti e in alloggi di fortuna. Provocarono anche un profondo stato di annichilimento tra la popolazione e divennero a un certo punto un buon argomento per la propaganda di guerra» scrive Spezzali. Di qui il primo esodo. Il 13 luglio 1944 veniva pubblicato un avviso alla popolazione: sfollamento obbligatorio determinato dall’assenza di luoghi da destinare ai sinistrati, difficoltà nel garantire l’approvvigionamento e l’erogazione di acqua e luce elettrica in caso di altri bombardamenti. Il 3 luglio 1946 viene costituito a Pola il Comitato di assistenza per il secondo esodo. Ben 20 mila polesani avevano chiesto di lasciare la città in caso di occupazione jugoslava. Della plebiscitaria sottoscrizione fu informato anche De Gasperi, che la citò nel suo discorso del 10 agosto 1946 alla conferenza di pace: «voi vi chiuderete gli orecchi alle grida di dolore degli italiani dell’Istria […] che sono pronti a partire, ad abbandonare terre e focolari pur di non sottomettersi al nuovo regime?». Nella relazione del prefetto si annota che «molte cure hanno rivolto i polesani al trasporto della propria mobilia. Costituiva, difatti, tutta la ricchezza che essi potevano recare con loro. Si provava una strana impressione ad andare a Pola in quei tempi: non si udiva che batter chiodi, in un continuo passaggio di casse di ogni genere e di imballi trasportati dai laboratori alle case, dalle falegnamerie alle abitazioni». Faticosa fu la ricerca di magazzini nei porti di Trieste, Venezia, Ravenna, Ancona e Brindisi. Vennero infatti trasferiti qualcosa come 129.391 metri cubi di masserizie, per un valore di circa due miliardi e mezzo di lire. Furono traslocate anche 59 salme. Meno complicato il trasferimento delle persone, che venne dichiarato ufficialmente aperto il 23 dicembre 1946. Agli esuli veniva corrisposto all’arrivo, per le prime necessità, un sussidio di 3000 lire al capo famiglia e di 1000 lire a ogni componente.
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