Don Dolindo Ruotolo
Dopo la serie-inchiesta intitolata "Cercando la fede", pubblicata nei mesi scorsi, con questa intervista si apre una nuova serie intitolata "Mostraci il tuo volto" con l’idea di intercettare le storie, le persone e i luoghi dove il volto di Dio si cerca, si mostra e si lascia incontrare.
Entrando nella seicentesca chiesa di San Giuseppe dei Vecchi a Napoli si resta colpiti dal flusso di persone e dagli ex voto. Ma è soprattutto una semplice sepoltura posta lungo la navata che conduce alla Cappella di Lourdes ad attirare l’attenzione. È la tomba di don Dolindo Ruotolo (Napoli 1882-1970), servo di Dio, mistico, confessore molto cercato, riferimento, in vita, per migliaia di persone e ancor di più ora che la sua devozione si sta diffondendo nel mondo man mano che aumentano le grazie. «In questa chiesa la gente viene per bussare», ci dice la nostra accompagnatrice, Grazia Ruotolo, novantenne nipote di Dolindo, autrice con Luciano Regolo, per le edizioni Ares, di Gesù, pensaci tu. Vita, opere, scritti ed eredità spirituale di don Dolindo Ruotolo (pagine 269, euro 16,00), con un’introduzione di monsignor Vittorio Formenti.
Per spiegare la sua affermazione, Grazia indica una targa su cui è scritto: “Quando verrai alla mia tomba, tu bussa e io ti risponderò. Confida in Dio”. Lo ha lasciato scritto nel testamento spirituale «per dire che lui anche da morto ci sarebbe sempre stato per chi avesse chiesto il suo aiuto. La gente ha preso il consiglio alla lettera, viene qui e bussa davvero. Poi torna altre volte a bussare, perché non c’è nessuno che entrando nel suo mondo d’amore per Gesù non ne esca effettivamente aiutato, rinnovato».
Sopra la tomba di Dolindo un volto di Cristo attrae l’attenzione. Gli occhi azzurri, il sorriso e lo sguardo magnetico sembrano quasi voler regalare una prima risposta al bussare delle preghiere. «Sembra vivo, vero?», domanda Grazia. Difficile dire... ma nel clima di spiritualità che si vive davanti a quella tomba la mente corre al somigliante Cristo fatto dipingere da santa Kovalska e al Volto Santo di Manoppello prima ancora di capire che con quell’interrogativo la nostra interlocutrice intende aprire un nuovo capitolo del suo racconto.
«Qualche anno prima di morire mio zio volle far dipingere un volto di Cristo che lo mostrasse così come lui diceva di vederlo. Era stato Gesù stesso a chiederglielo in un dialogo mistico. Fra le sue figlie spirituali c’era una certa Lucia Altomare di Trani che faceva la pittrice. Così don Dolindo chiede a lei di dipingerlo e le spiega ogni particolare di quel volto suggerendo di tenere come riferimento il negativo fotografico della Sacra Sindone. Sopraffatta da tanta responsabilità Lucia sostiene di non esserne capace, ma lui insiste. Le prime tre prove vengono bocciate perché non somiglianti. La donna, considerandosi inadatta, invita mio zio a cercare un altro artista. Allora don Dolindo la conduce in chiesa e la fa inginocchiare. Le pone il rosario sul capo, la benedice e aggiunge: "Ora non devi più preoccuparti, abbandonati a Gesù e non sarai più tu a dipingere, ma sarà Gesù con le tue mani"». Nelle settimane che seguono la sostiene con lettere in cui spiega che quel volto avrebbe donato grazie e conversioni. Quando Lucia torna col nuovo dipinto, Ruotolo, commosso, lo riconosce come il Gesù delle sue visioni.
«Purtroppo – racconta Grazia – l’originale è stato rubato, ma la sua copia fotografica si è diffusa nel mondo moltiplicando le grazie promesse. Io però ho sempre pensato che chi vuole davvero vedere il volto di Gesù come don Dolindo lo vedeva deve leggere i suoi scritti». Scritti riguardo ai quali, sottolinea ancora Grazia, «padre Pio, in una lettera a Elena Montella, figlia spirituale dello zio, che gli chiedeva cosa pensasse di quei testi tanto criticati, ebbe a rispondere: "Nessuna parola uscita dalla penna di don Dolindo deve andare perduta"».
Di quei libri don Dolindo riteneva di non essere artefice di una sola riga, ma che Gesù stesso scriveva attraverso di lui: «A me ha detto che "ogni riga è scritta sotto dettatura di Gesù, che mi siede accanto". In altre occasioni l’ho sentito dire che "se la penna con cui scrivo non servisse alla gloria di Dio la spezzerei immediatamente". Ecco perché dalla lettura di quei libri arrivano grazie e conversioni».
Eppure furono proprio quegli scritti a creare a don Dolindo tante umiliazioni. Soprattutto i 33 volumi di commento alle Sacre Scritture. Nei primi decenni del ’900 la sua esegesi biblica, spesso tesa a ricomporre il dissidio fra scienza e fede, si scontra con i dettami del Pontificio istituto biblico. Convocato dal Sant’Uffizio, viene processato e sospeso a divinis nel 1908 e riabilitato nel 1910. Ma alcuni anni dopo è nuovamente accusato di eresia da alcuni prelati e persino da una sua figlia spirituale. A difenderlo si schierano il vescovo di Gravina-Irsina, Giovanni Maria Sanna, e Giuseppe Maria Palatucci, vescovo di Campagna; viene però ancora sospeso nel 1921 e la riabilitazione arriverà solo nel 1937.
Anni durissimi per lui, eppure nessuno lo ha mai sentito criticare chi lo accusava. «Riteneva che tutto fosse volontà di Dio. Ai suoi calunniatori rispondeva con l’amore. Se li incontrava per strada si intratteneva a conversare e invitava a tacere chi parlava male di loro perché, diceva, "sono i miei più grandi benefattori". Per amore della Chiesa si sottoponeva a severe penitenze e intere notti di preghiera: "Si prega prima di tutto con le ginocchia". E la sua preghiera era un continuo affidamento. Mi diceva che "mille preghiere non valgono un solo atto di abbandono. Ricordatelo, non c’è novena più efficace di questa: Gesù mi abbandono in te. Pensaci tu". Da vecchio, affetto da artrosi, veniva a casa nostra dopo le undici di sera (prima faceva il giro degli ammalati e dei più poveri) per parlare con mio padre e aveva sempre una pesante borsa di tela, piena di pietre che lui chiamava "perle per il cielo"».
Guardi il volto di Gesù che ha fatto dipingere e ti chiedi quanta umiltà bisogna avere per sentirsi accompagnati da un Cristo che ha negli occhi così tanta misericordia. «Se lo incontravi per strada – racconta ancora Grazia col suo modo espansivo e verace – sembrava un po’ assente, ma era la sua maniera di essere su questa terra sempre in rapporto col cielo. Era qui e là contemporaneamente. A mio padre diceva: "Umbe’ vuoi sapere quanto è buono il Signore? Quando predico guardo il tabernacolo e gli chiedo: sei contento? E lui risponde: continua così, continua, tu sei Gesù-Dolindo, io Dolindo-Gesù". Gli diceva anche: “Umbe’, sono stato faccia a faccia con Gesù, proprio io, povero sciosciammocca (inutile cretino)”. Ascoltavo queste cose e non capivo. Da grande, leggendo i suoi scritti mi sono resa conto della forza di quei dialoghi mistici lì dove si dice, per esempio: “Non avere paura a prendere su di te la sofferenza degli altri, sulla tua disponibilità costruirò una montagna di misericordia”. E non c’era una richiesta che gli giungesse e restasse inevasa, anche da un altro continente».
Qui non è luogo e non c’è spazio per aprire il capitolo sulle bilocazioni su cui Grazia ha tanto da raccontare. Ma certamente don Ruotolo viveva la comunione dei santi. Lui che aveva fatto voto di non perdere tempo, riusciva anche a moltiplicarlo. In questo senso erano «specialissime» le “relazioni” con la beata Giuseppina di Gesù Crocifisso, carmelitana scalza, di cui era padre spirituale e quella col suo angelo custode, un po’ alla maniera di Gemma Galgani, aggiungiamo noi.
«Componeva musica e canti liturgici. Recentemente a Varsavia (in Polonia c’è grande devozione per lui) è stato fatto un concerto con le sue musiche che molti considerano ispirate dall’alto. Il rettore del santuario della Madonna dell’Arco, Giuseppe Castiello, ricordava di aver sentito lo zio all’organo cantare con altre voci maschili e femminili ma entrando lo aveva trovato da solo. Lo zio a qualcuno ha confidato che spesso la Madonna e Gesù venivano a cantare con lui».
Il pittore e scultore Vincenzo Gemito, di cui era amico, diceva che solo parlando con Dolindo trovava sollievo alle sue inquietudini. Enrico Medi, anch’egli servo di Dio, partecipava alle sue catechesi. Carlo Campanini si confessava da lui. E Grazia racconta di persone «che al momento dell’assoluzione vedevano i suoi occhi scuri diventare di un azzurro brillante», come quelli del Cristo che aveva fatto dipingere così come diceva di vederlo.