mercoledì 25 giugno 2014
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Ci vuole un bel coraggio, in un’epoca in cui i cosiddetti novissimi (morte, giudizio, inferno, paradiso) vengono un pochino dimenticati, perfino dalla teologia, a intitolare a essi una mostra d’arte contemporanea. E invece il Museo per l’arte moderna di Francoforte ci ha scommesso una delle sue esposizioni più importanti dell’anno (si chiuderà il 27 luglio dopo 3 mesi di apertura). 'La Divina Commedia. Paradiso, Purgatorio e Inferno rivisitati da artisti africani contemporanei' è il titolo della mostra che vede radunate opere inedite e create per l’occasione da 50 uomini e donne d’arte provenienti dal Continente Nero.«Cosa mi ha spinto a creare questa mostra?», si domanda Simon Njami, affermato critico d’arte di origine camerunense, ma nato a Losanna e curatore dell’evento. «Dagli avvenimenti dell’11 settembre ho iniziato a pensare che il tempo delle violenze del passato iniziava a tornare. E ho voluto indagare il mistero del bene e del male». Gli fa eco la direttrice del museo di Francoforte, sede dell’interessante e provocatoria esposizione: «Njami, da africano, vuole mostrare che il sistema europeo di credenze su paradiso, inferno e purgatorio, così come lo abbiamo sempre reclamato come nostro e come Dante lo ha descritto, in realtà ha valore universale. Le domande 'da dove veniamo' e 'dove andremo' accomunano tutti gli uomini e le donne». La mostra è dislocata sui tre piani dell’edificio del Museo in riva al Reno, ciascuno dedicato ad una delle tre cantiche dantesche: 4500 metri quadrati in totale. Nel suo dipanarsi si susseguono diverse forme visive: installazioni video, pitture, sculture, performance. Provengono da quasi tutta l’Africa coloro che hanno dato vita a queste opere: dalla Tunisia islamica allo Zimbabwe del regime dittatoriale di Mugabe, dal Benin, uno degli Stati più poveri del pianeta, al Sudafrica, uno dei 'leoni' dello sviluppo economico africano. 

La cronaca e la sensibilità tipicamente africana interagiscono con la sapienza letteraria e teologica del capolavoro dantesco. È il caso di Virgil and Beatrice, dell’artista dello Zimbabwe Berenice Josephine Bickle. Il poeta romano, guida di Dante nell’oltretomba, diventa colui che introduce il visitatore nelle città dello Stato oggi guidato da una delle più feroci dittature esistenti nel Continente; Beatrice, una donna nera, interagisce con il Virgilio di colore raccontando la storia decente dello Zimbabwe, moderna incarnazione della terra dove si lascia ogni speranza quando vi si entra.Qualcosa di simile avviene per l’etiope  Aida Muluneh, che l’inferno non deve molto immaginarselo, guardando in faccia alla realtà del suo popolo povero e oppresso, vittima di numerosi conflitti: la donna a mezzobusto con la pelle dipinta di bianco e di rosso, le tre mani che spuntano sul corpo (è l’immagine che funge da manifesto della mostra) sta a significare la violenza coloniale, nonché le oppressioni del Nord del Paese sul Sud, che hanno attanagliato questa porzione del Corno d’Africa. Si diceva della cronaca 'infernale' dell’Africa: ecco il genocidio del Ruanda evocato dall’artista kenyana  Wangechi Mutu, che lo ha prefigurato con una serie di tavole di legno su cui si staglia il fantasma di diversi cadaveri; ecco le miniere di Kolwezi, nel Katanga, grazie alle bellissime fotografie del congolese  Sammy Baloji; ecco il dramma dei viaggi della speranza di migliaia di africani verso l’Europa, nell’opera dell’ivoriano Jems Robert Koko Bi: una barca-bara di legno con 80 teste. Ma è nell’immaginare il paradiso che la fantasia artistica dei geni africani esplode in mille provocatorie immagini. Abdoulay Konaté, del Mali, pensa il mondo della beatitudine attraversato dalla danza, oggetto e medium per vivere l’eternità beata; il franco- africano Maurice Pefura scrive, bianco su bianco, alcuni versi del Paradiso su rettangoli bianchi appesi al soffitto e fluttuanti in sala, nei quali i visitatori sono invitati a entrare. E c’è chi, con un richiamo alla visione islamica, immagina l’al di là beato popolato di avvenenti fanciulle. Ma anche chi, come l’egiziano Nabil Boutros, opera una ficcante denuncia: con i suoi pannelli a specchio su cui sono scritti diversi  versi sul Paradiso, allude al ruolo ambiguo delle religioni verso il Paradiso: indicano ma anche imprigionano, secondo il doppio gioco classico dello specchio. E i giudizi? In casa nostra la rivista Nigrizia ha promosso la kermesse artistica a pieni voti: «Simon Njami è riuscito a trovare una chiave originale per attrarre su un’esposizione di arte africana contemporanea la curiosità anche di non specialisti – scrive l’autorevole mensile dei missionari comboniani –. E ha evitato nuovi clichè, come quelli di un’arte africana di oggi simpatica, innocua e sospesa in un limbo di irrilevanza».

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