giovedì 17 novembre 2016
Missionari laici e volontari italiani gestiscono un villaggio per bambini di strada dove vivono 300 persone, quasi tutte con un passato di dipendenza da alcool e droga
La Casa de los niños (Gaetano Veninata e Daniela Sala)

La Casa de los niños (Gaetano Veninata e Daniela Sala)

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«Cosa ci faccio ancora qui? Sono stato rapito, credo che la mia sia una specie di sindrome di Stoccolma». Gianluca Scannapieco ha 37 anni, viene da un paesino della costiera amalfitana, ma ormai sono sei anni che vive nella periferia di Cochabamba, in Bolivia. Tra i Paesi più poveri del Sudamerica, a nord del Cile e dell’Argentina, la Bolivia è governata dal 2006 da Evo Morales, primo presidente indigeno del Paese, leader socialista salito al potere negli anni di Lula in Brasile e Chavez in Venezuela. Cochambamba è la quarta città per numero di abitanti: la chiamano la «città dell’eterna primavera», perché qui a 2500 metri di altitudine, sulle pendici dell’altipiano andino, l’inverno non arriva mai.


Arriviamo alla Casa de los niños, la «casa dei bambini», poco dopo l’alba. A separare l’ingresso dalla strada c’è un piccolo fossato. Di fronte un grande palazzo in costruzione. Si chiama «Casa», ce l’ha pure scritto all’ingresso, ma casa non è: sarebbe più corretto definirla un villaggio, come ci accorgiamo appena arrivati. A portarci qui è stato uno scambio di mail con Gianluca, che è arrivato nel 2009 come volontario per un mese. Nel 2010 è tornato per restare. La Casa de los niños oggi è solo una delle tante costruzioni, in quello che ormai è diventato un villaggio di circa 300 persone, quasi tutte con un passato – e a volte un presente – di dipendenze e di vita di strada. La Casa de los niños era e resta comunque il cuore (e il cervello) del villaggio.

È qui che da tre anni vive Paula, nata dalla violenza di un padre sulla propria figlia. Poi c’è Pilar, nata quasi cieca e gravemente disabile: sua madre, tossicodipendente, l’ha abbandonata appena nata. Carlito, invece, ha 4 anni ma ne dimostra la metà; ha l’idrocefalia e anche lui è stato – a causa di questa malformazione – abbandonato appena nato. Come gli altri sei bambini attualmente accolti nella casa, Paula, Pilar e Carlito sono figli della strada, orfani di genitori ancora in vita. A prendersi cura di loro sono Tania e Aristide, insieme ai volontari – molti dei quali italiani – che si fermano qui per qualche giorno o per mesi. La Casa de los niños nasce dal loro incontro, più di dieci anni fa. Tania Grigoriu è nata a La Paz, la capitale de facto della Bolivia (quella costituzionale è Sucre), ma è cresciuta a Cochabamba. Dai 16 ai 18 anni ha studiato a Trieste, al Collegio del Mondo unito dell’Adriatico, ma è a Cochabamba che ha iniziato a fare volontariato con i bambini di strada e delle periferie: «Finito il doposcuola – ricorda – noi tornavamo a casa, dove avevamo le finestre, un letto e l’acqua corrente. Mentre quelli di loro che non vivevano per strada tornavano nelle baracche, dove un’unica stanza serviva da cucina, bagno e camera da letto». E a Cochabamba ancora oggi molte abitazioni non hanno accesso all’acqua corrente.


È lavorando con la Comunità di Sant’Egidio che Tania ha incontrato Aristide Gazzotti: «Io ho iniziato ad occuparmi dei bambini di strada dopo l’appello del vescovo di Cochabamba nel novembre 2000 – racconta Aristide –. La Chiesa come madre non può permettere che i propri figli vivano per strada». Aristide è originario di Roteglia, un piccolo paese in provincia di Reggio Emilia, da cui proviene anche parte del sostegno economico per le iniziative della Casa. Aristide, che oggi ha circa 70 anni, è arrivato in Cile 30 anni fa, come missionario laico. Parla piano, quasi sottovoce. Lo intervistiamo in macchina, mentre sta andando a prendere una donna sieropositiva che ha subito violenze dal marito per accoglierla nel villaggio, insieme alle due figlie.

Nella seconda metà degli anni ’90 è stato trasferito in Bolivia, dove ha iniziato a lavorare per l’arcivescovado di Cochabamba: «Praticamente ospitavamo i ragazzi di strada a casa nostra, ne abbiamo contati 86 nei primi due anni: cercavamo di aiutarli ma soprattutto di capire perché vivessero in strada e se era possibile ricongiungerli alle famiglie». Poi, dopo l’incontro con Tania e grazie all’aiuto di alcuni amici, ha trovato e acquistato il terreno dove sorge oggi la «cittadella», come la chiama lui stesso.
I bambini che oggi vivono nella casa sono affidati all’associazione dai servizi sociali boliviani, in attesa di trovare una famiglia disposta ad adottarli. Tania e Aristide stanno a loro volta adottando uno dei bambini che attualmente vive nella casa e che a causa di una disabilità particolarmente grave ha bisogno di un’assistenza costante. Nella sola Cochabamba ci sono circa 90 hogares, centri per l’accoglienza temporanea dei minori, che ospitano in tutto circa cinquemila bambini. Molti, soprattutto se disabili, rischiano però di trascorrere tutta la loro vita in un centro.


Alla Casa de los niños si sono spinti oltre. Come ci spiegano, il primo obiettivo è sì dare assistenza ai bambini, ai ragazzi di strada, ma per poi arrivare alle famiglie. Il sogno di Aristide, in parte già realizzato, è quello di costruire una comunità. Nel villaggio c’è non solo una chiesa – frequentata da poche persone, visto che la maggior parte degli abitanti è di fede evangelica –, ma anche una scuola, il cui responsabile è Gianluca. Le case si costruiscono insieme, grazie alle donazioni che arrivano in buona parte dall’Italia. Non c’è affitto da pagare, ma le famiglie che scelgono di vivere qui devono coprire le spese per luce e acqua. Spesso inoltre sono proprio le famiglie del villaggio ad adottare i minori affidati alla casa dai servizi sociali: «Un figlio a volte ha il potere di cambiare le cose – afferma Gianluca –, può trasformare le dinamiche all’interno di una famiglia, e anche spezzare una spirale di violenza o di disagio». E le famiglie del villaggio hanno anche una responsabilità nei confronti dell’associazione: «Se alla Casa arrivano tanti bambini, loro devono aiutarci».


Anche se i problemi non mancano: «Quando c’è la festa del paese – racconta – metà dei genitori scompare, lasciando qui i figli: vanno alla chicheria». Cioè qualunque posto, spesso una casa privata, dove si vende la chicha, l’alcol dei poveri: un distillato di mais con cui ci si stordisce a poco prezzo. Il consumo di alcol dentro il villaggio è bandito; non sempre però, per chi è viene da esperienze di dipendenza e di violenza, come la quasi totalità delle famiglie che vive qui, cambiare è facile. «Se c’è una cosa che ho imparato alla lettera – afferma Gianluca – è applicare il principio evangelico secondo cui bisogna perdonare 70 volte 7. E qui, credetemi, si perdona anche di più».


A novembre, per il quarto anno consecutivo, le 97 famiglie che vivono qui eleggeranno una specie di sindaco interno. L’idea è quella di cercare di risolvere i problemi all’interno, tra cui anche i casi di violenza domestica che purtroppo non sono rari. C’è una finestra dentro la casa, da cui si vede buona parte del villaggio. Aristide la chiama la «finestra dei sogni realizzati»: «È da quella finestra che ho visto un padre giocare con la figlia sull’altalena. Un padre che fino a poco tempo prima era sempre ubriaco». A volte anche una spirale di violenza che dura da generazioni si spezza: «È così che immagino il mio ruolo tra dieci anni: da spettatore, in contemplazione».
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