venerdì 22 settembre 2023
Dai Balcani alla Siberia, dal Costa Rica al Senegal e alla Papua Nuova Guinea: un viaggio fotografico e un libro sul fascino mondiale della pallacanestro
Nelle sperdute lande erbose di Terhijn Cagaan Nuur (Mongolia), foto di Roberto Cornacchia e Luca Cocchi autori del libro "Chi segna regna" (Pendragon)

Nelle sperdute lande erbose di Terhijn Cagaan Nuur (Mongolia), foto di Roberto Cornacchia e Luca Cocchi autori del libro "Chi segna regna" (Pendragon) - Cornacchia/Cocchi

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Ha ragione Hakeem Olajuwon, ex stella Nba, quando diceva: « Ho sempre una palla in macchina. Non si sa mai». Oggi un campetto lo trovi ovunque. Nella savana africana come nella steppa russa, su un’isola sperduta come nelle foreste tropicali. Due tabelloni, o anche solo due anelli senza reti, sono pronti a sorprenderti anche in mezzo al deserto. Se avete qualche dubbio, perché volete “vedere” per credere, lasciatevi conquistare da un libro suggestivo le cui immagini parlano da sole: Chi segna regna. Dove il basket è passione: 300 campetti scovati e fotografati in giro per il mondo (Pendragon, pagine, 224, euro 25). È il volume che riempie gli occhi di due impavidi fotografi- reporter, ma soprattutto due innamorati pazzi della pallacanestro: Roberto Cornacchia e Luca Cocchi. Oltre dieci anni di viaggio, una settantina di nazioni perlustrate alla ricerca dei “playground” più improbabili in nome della legge del campetto richiamata nel titolo (“chi segna regna”, la squadra che fa canestro mantiene il possesso). Dalle lande desertiche del Kazakistan al Senegal, dalla roccia sacra di Taikhar Chuluu in Mongolia al Costa Rica, anche tra coccodrilli, tucani e uova di tartarughe verdi, non mancano mai un paio di tabelloni.

Lo “strano vizio” di inseguire una palla a spicchi in giro per il pianeta, li ha portati spesso con atterraggi di fortuna e a bordo anche di idrovolanti, tra le tribù della Papua Nuova Guinea come nel cuore dell’Amazzonia peruviana. E quale meraviglia scoprire canestri nel nulla come a 4 mila metri di altitudine nella Puna Andina dove « portarsi il pallone da queste parti è spazio rubato alle bombole dell’ossigeno ». Non meno stupore in Africa, sulle orme dei dinosauri nel Lesotho, quando si sono trovati di fronte due pali con due anelli «un campo da basket del tempo giurassico». La pallacanestro troneggia ovunque, tra i gorilla in Uganda o tra le dune dell’Oman, fino in Cina dove a dispetto di una terra non di giganti questo sport è più popolare che in Norvegia. Incurante di ogni latitudine, un campetto lo trovi anche nella penisola di Yamal, in territorio russo oltre il Circolo Polare artico, o in Siberia sebbene ricoperto da un metro di neve. Sopravvissuto alle tragedie della storia, come il campo dell’ex bunker sovietico in Lettonia, il basket è “religione” in Lituania o nei Balcani.

Un contagio globale che fa riflettere: perché questo sport ha attecchito in tutti i continenti? Più di una risposta la si trova in un volume intrigante: Come il basket può salvare il mondo. Tredici principi guida per reimmaginare ciò che è possibile (Mondadori, pagine 320, euro 21). L’ha scritto David Hollander, un docente statunitense che definire appassionato è dir poco, a tal punto convinto del potere salvifico di questo gioco da inaugurare un corso di studi alla New York University. La tesi è chiara: questo sport più di altri è capace di rendere noi e il mondo che ci circonda un posto migliore. Per dimostrarlo si serve di tredici principi come le tredici regole del basket di James Naismith, il professore canadese, che una sera del 1891 al College di Springfield (Usa) ideò questo nuovo gioco al chiuso in grado di tenere occupati nei mesi invernali gli studenti più esuberanti. Sotto canestro vengono esaltati l’altruismo, la collaborazione, la flessibilità. Proprio come nella vita che «ti chiede di essere costantemente pronto a imparare, spostarti, rinnovare. Se la vedi così, sarai preparato a gestire la situazione ovunque vada a finire la palla: fame, malattia, cambiare casa, città, lavoro». Hollander ne sottolinea anche la grande capacità di aggregazione, come dimostrano i tanti college cattolici che negli Stati Uniti si servirono della scuola e di una palla da basket per integrare migliaia di immigrati provenienti dall’Europa tra il XIX e il XX secolo. La pallacanestro ha fatto la storia aprendo varchi inimmaginabili: la prima volta che la Cina di Mao aprì le porte all’Occidente fu nel 1966 per una competizione diplomatica con la squadra fran- cese Les Tricolores in visita alla Repubblica popolare cinese.

Il basket ti fa evadere da realtà difficili, come i drammi familiari o le dipendenze. Magic Johnson che ancora oggi combatte con l’Hiv, ha detto: «Quando sei in campo ti liberi di tutto, di tutti, del mondo. È il tuo porto sicuro, solo tu e i tuoi compagni. Qualunque cosa stesse succedendo nella mia vita, quando scendevo in campo erano due ore e mezza di felicità». Perché il basket è poesia, come ha scritto Natalie Diaz, autrice nativa americana: «Una palla da basket non è mai stata solo una palla da basket: è sempre stata una luna piena in questa atroce oscurità». E questo gioco « porta gli esseri umani a un livello più alto dell’essere umani» spiega Hollander che si è speso in prima persona perché la Madonna del Ponte di Porretta Terme (Bologna) diventasse la patrona italiana di questo sport. Convinto del fascino religioso della pallacanestro, perché come ha scritto il fuoriclasse Nba Kevin Durant: «Tutto il mondo mi sembra più luminoso. Per questo so che deve esserci qualcosa. Non è solo un gioco. Perché ho visto cambiare tutto il mio mondo. Non necessariamente per il successo o il denaro, è proprio che vedo la gente in un altro modo. Dio ha steso la sua mano su ogni campo, ovunque. È stupefacente». Prima della morte di Naismith nel 1939, le regole del basket erano state tradotte in quasi cinquanta lingue e dialetti. Nemmeno lui poteva immaginare quanto ancora si sarebbe diffuso. Ma non nascondeva la sua soddisfazione perché il suo sogno era diventato realtà: «Sono certo che nessun uomo possa ricavare più piacere dal denaro o dal potere di quanto ne ricavo io dal vedere un paio di canestri in una località remota».

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