venerdì 8 maggio 2020
L’ex azzurro è stato un talento irregolare, capace di battere i n.1 come Agassi e poi perdere con Skoff. Unica medaglia olimpica azzurra, oggi fa il maestro alle porte di Bergamo
Paolo Canè a Wimbledon (1987) nella sfida persa dopo tre ore di gioco contro Lendl

Paolo Canè a Wimbledon (1987) nella sfida persa dopo tre ore di gioco contro Lendl - Archivio

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Non tacciateci di inguaribili nostalgici, ma da noi, così come c’è stato un calcio di poesia, è esistito anche un tennis romantico. È stato quello dei migliori e vellutati gesti bianchi, iniziato da Nicola Pietrangeli, proseguito con il suo erede Adriano Panatta e conclusosi, all’inizio del nuovo millennio, con quello che lo scriba massimo della racchetta, Gianni Clerici, definì «il miglior talento» dell’era post-Adriano, ovvero, Paolo Canè. «Per Clerici ero il miglior talento apparso sui campi italiani, ma per lui ero anche “NeuroCanè”... lo schizofrenico del Foro Italico. E quest’etichetta mi è rimasta appiccicata addosso, e non si leva più...». Un’etichetta da staccare, ora e qui. Ieri, è vero, era “Paolino la peste”, il “Nevroromantico” del tennis azzurro, l’uomo che leggenda popolare vuole abbia spaccato interi set di racchette. «Ecco dice bene, “leggenda popolare”. Imprecavo in campo, ho rotto una fioriera durante un match, ma sono anni che scommetto con amici e conoscenti: portatemi un filmato in cui rompo una racchetta e vi pago la cena. Sono arrivato a 43 cene vinte, ma da otto-dieci persone, conti salati. Il prossimo passi pure alla cassa, prego». Genio e sregolatezza dell’ex ragazzo bolognese che oggi è semplicemente papà Canè («ho tre figli: Lorenzo 16 anni, Achille 5 e Samuele 4) e il Maestro di Gorle, l’uomo che sussurra ai ragazzi della sua scuola tennis alle porte del tragico focolaio di Bergamo. «Sono 74 giorni che me ne sto rinchiuso in casa con mia moglie Erika – unico matrimonio che si sappia – e i miei due piccoli che prima del lockdown avevano avuto la febbre e così per noi la quarantena è stata doppia... Come la combatto? Invio on-line i programmi d’allenamento ai miei allievi: una mezza dozzina tra i 15-18 anni e poi dai 4 in su circa 40 ragazzini. Collaboro, a distanza, con Rho e il club il Molinello di Gianni Gioia. E poi passo tanto tempo con i miei figli, gli racconto qualche bella fiaba e ho montato le porte da calcio in giardino per farli un po’ giocare a pallone». Anche in tempo di Covid-19 abbiamo visto che lo sport tenta di non fermarsi. «Oh, gli italiani a un certo punto si sono scoperti tutti atleti... tutti insieme appassionatamente nei parchi a fare footing, magari senza mascherina. E intanto qui nella bergamasca fino a ieri è stato uno scenario straziante: le chiese dei paesi vicini sono ancora piene di bare... Una tragedia che forse si poteva evitare, come si poteva fare a meno a metà febbraio, quando il virus già circolava, delle passeggiate al mare, di organizzare le grigliate con gli amici o partire in 40mila da Bergamo per riempire San Siro per la partita di Champions dell’Atalanta».

Scenari apocalittici da conseguenze del dolore, e ora anche il tennis per ripartire deve farlo in massima sicurezza, con mascherine, guanti e palline contingentate. «L’obiettivo primario è tirare fuori i ragazzi dalle quattro mura domestiche dove stanno ammuffendo anche i loro sogni. Dopo il 18 maggio conto di riaprire la mia scuola. Magari due alla volta a cominciare dai più piccoli: ne metto uno sul paletto, uno a fondo campo e li faccio tornare a parlare fra di loro. Gli dirò: chi colpisce il birillo vince la caramella! Non avranno giocato tantissimo ma almeno tutti insieme proveremo a battere l’avversario più pericoloso da qui in avanti, la paura». Saggezza di mastro Canè che con gli anni, sono 55, ha imparato ad andare a rete anche con un pizzico di pedagogia. «Non esageriamo, ho smesso di studiare in quarta ragioneria e me ne pento. Però con il tennis è come se mi fossi laureato, perché girare il mondo e cavarsela da solo fin da ragazzino è ancora la migliore delle università». E questi sono i primi rudimenti che fornisce anche ai suoi tennisti in erba. «Alla prima lezione li guardo negli occhi e con il sorriso del buon padre gli dico: io ti offro il mio tempo, tu però impegnati a non farmelo perdere. La fretta di quando giocavo è diventata la pazienza nel sapere ascoltare e insegnare questo sport. Ai ragazzi ricordo sempre: divertitevi, ma se avete scelto il tennis fate qualche sacrificio in più perché anche se domani sarete dei medici, dei bancari o farete i gelatai, almeno vi resterà una passione, un amico con il quale continuare a giocare la partita della domenica. Penso che sia un lusso anche questo».

Sono gli insegnamenti dell’ex talento sbocciato nell’ultima scuola federale, a Formia, sotto la tutela di quell’inarrivabile educatore che è stato Mario Belardinelli. «Un secondo padre Mario e lo stesso è stato per i miei compagni di Formia, Cancellotti, Urbinati, Faroni. Quelli sono stati gli anni più belli. Ti svegliavi al mattino e respiravi un’aria frizzante piena di speranza nel futuro. Belardinelli lavorava su un massimo di sei-sette talenti da crescere e portare ad alto livello. Era una selezione forse eccessiva, ma con tutto il rispetto per i miei colleghi, oggi siamo passati alla densità assurda di un’accademia in ogni paese. Sta passando il messaggio sbagliato che tutti possono arrivare al vertice e invece la maggior parte sono dei ragazzini che al primo inciampo mollano e cambiano sport o addirittura smettono del tutto di fare attività fisica». Ma quello dell’abbandono precoce era iniziato con la “generazione Canè”. «Tanti miei coetanei è vero hanno appeso la racchetta al chiodo a 22-23 anni e per campare si sono messi subito a fare i maestri. Ma è stata una scelta obbligata, non era possibile volare in Australia e spendere di tasca propria 700-800 dollari solo di aereo... se poi uscivi al primo turno andavi in rosso in banca. Oggi se avanzi al secondo turno ti danno 100mila euro. Io ho avuto la fortuna che i miei genitori all’inizio mi hanno coperto e poi dopo un anno e mezzo diventando professionista ho cominciato a guadagnare con i tornei, ma le cifre di allora fanno ridere rispetto a quello che incassano i tennisti di adesso».

La bella vita, almeno fino a prima del Coronavirus, anche dei tennisti nostrani che vincono poco, rispetto agli altri, e che non sono mai saliti su un podio olimpico come invece ha fatto Canè: unico azzurro a vincere una medaglia, il bronzo, ai Giochi di Los Angeles 1984. «Sfortuna volle che il tennis era ancora sport dimostrativo, adesso ci manca poco che anche il lancio dei coriandoli diventi disciplina olimpica. Quattro anni dopo Los Angeles, alle Olimpiadi di Seul il tennis era stato riconosciuto, ma ai quarti uscì contro Edberg. Il tennis ai Giochi non conta? A Federer, Nadal e Djokovic, più di una volta gli ho sentito dire che darebbero indietro una vittoria al grande slam in cambio di un oro alle Olimpiadi... Il motivo è semplice, con il casino che hanno combinato con la “nuova” Coppa Davis quella è l’unica rassegna mondiale in cui un tennista sente che sta giocando per il suo Paese».

Per l’Italia di Davis Canè ha dato dieci anni della sua carriera. Il decennio del più irregolare del tennis tricolore, capace di tenere testa per 3 ore a Ivan Lendl sull’erba di Wimbledon (1987) e battere tutti i n.1 del mondo (da Borg e McEnroe fino ad Agassi). Tra i match memorabili: quello di Davis del ’90, a Cagliari, contro Max Wilander, lo supera al 5° set e diventa il giocatore italiano più famoso a Stoccolma. «Mi ribattezzarono “l’ammazzasvedesi” li avevo sconfitti davvero tutti... Non lo faccio mai, ma per colpa della quarantena mi sono rivisto alla tv un Muster-Canè a Vienna. Alla fine mi sono detto: però, eri bravo Paolo! Poi ho spento perché stavo male... Ad ogni colpo ho risentito tutta la sofferenza fisica di quando giocavo: per me ogni punto era come scendere all’inferno per poi risalire, faticosamente». La fatica dei tanti infortuni su un corpo scarno («pesavo 68 chili e Panatta ci portava a Merano a fare la dieta prima della Davis, al secondo giorno ero l’unico a mangiare menù alla carta»), teso come una corda di violino. Canè era in grado di comporre sulla terra battuta o sul veloce melodie memorabili, con la stessa naturalezza con cui ha beccato stecche clamorose, magari con il n.300 del mondo. «Mancavo di concentrazione e di costanza, i due elementi che ti fanno entrare tra i primi dieci. Così il giorno prima che ne so eliminavo Edberg e all’indomani mi buttava fuori uno come l’austriaco Horst Skoff che non è mai andato oltre il 70° posto... Povero Skoff, era un amico che sentivo ogni tanto, è morto a quarant’anni..».

Le montagne russe di Paolo il caldo, su cui saliva e scendeva in telecronaca anche “Bisteccone” Galeazzi ammaliato dal colpo della casa Canè, il «turborovescio». «Grande Giampiero, era praticamente aggregato alla squadra: ho una miriade di aneddoti con Galeazzi al seguito, ci vorrebbe un libro per raccontarli tutte. La mia autobiografia? Ho letto quella di Agassi, lì c’è tutto, il meglio e il peggio del tennis. Io alla fine mi sono divertito e ho avuto la fortuna di giocare contro i migliori di sempre, perché i primi trenta giocatori degli anni ’80-’90, compreso il sottoscritto che è arrivato ad essere il n.26 del ranking, erano nettamente superiori ai primi venti attuali». Del tennis odierno mastro Canè segue con passione il 21enne Denis Shapovalov, «un fenomeno il canadese, quando imparerà a non fare quei 200-300 errori a partita allora vedrete... È 13° ora, ne riparliamo tra un anno. Il nostro Sinner? Potrei dire di lui quello che Clerici disse di me allora, non ho visto negli ultimi vent’anni un talento come Jannik: non perde mai il fondo come sapeva fare solo Agassi e ha la stessa potenza reattiva di Djokovic. Ma la prima legge del tennis è: se vinci avanzi, altrimenti avanti un altro». Concetti chiari, da capitano, da esperto che meriterebbe un ruolo in Federtennis. «Questo mondo mi ha “rapito” a 13 anni, penso che gente come me, Nargiso, Camporese, Claudio Panatta... avrebbero molto da dire e da dare ancora alla Federazione. Se l’Italia chiama io ci sono, sempre». A chiamarlo sono Achille e Samuele: cercano il loro papà per giocare... E allora ti chiedi: il tennis di domani avrà un altro Canè? «Per ora i miei figli fanno altri sport, hanno tutti e tre un loro talento, chissà... Gli auguro di girare il mondo come ho fatto io e di fermarsi solo quando avranno trovato la serenità, come me adesso... con loro».

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