sabato 24 gennaio 2009
Da “vice” Facchetti a primo “fermato” nel 1981 Oggi Angiolino Gasparini collabora con una Comunità di recupero per tossicodipendenti. «La droga non serve a niente e non migliora la prestazione. Mi ha salvato l’amore per questo sport, una passione senza prezzo».
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«Forse il problema, ancora più grave del doping è da­to dalla cocaina. Ne gira parecchia nel mondo del calcio. Il fat­to è che dopo due giorni che si è as­sunta la sostanza è impossibile che ai controlli ne rilevino le tracce. Per ri­scontrarla si dovrebbe ricorrere all’e­same del capello. Se lo facessero, cre­do che i positivi alla cocaina sareb­bero parecchi...». Così, parlò ad Avve­nire qualche tempo fa Lamberto Bo­ranga, medico sportivo ed ex portie­re di serie A. L’abuso di cocaina nel mondo del pallone sta diventando un fenomeno serio di cui si discute po­co, ma ventisette anni fa quando gio­cava Angiolino Gasparini, era prati­camente tabù. A lui, il “vice Facchet­ti” nell’Inter e poi colonna difensiva dell’Ascoli (481 gare tra serie A e B) di Carletto Mazzone, il 29 luglio del 1981 toccò in sorte il triste primato storico del calciatore fermato per cocaina. Non fu il classico stop dell’antidoping dei giorni nostri, ma un regolare mandato d’arresto da parte della Po­lizia che andò a prenderlo nel ritiro dell’Ascoli. Un risveglio triste in quel mattino d’estate, poi l’incubo delle porte del carcere che si richiudevano alle sue spalle. Una storia che per sen­tirla dalla viva voce di Gasparini oc­corre raggiungere il suo rifugio di Bor­go La Caccia dove dirige l’omonima cooperativa agricola inserita all’in­terno della Comunità Lautari - fon­data nel ’92 dall’imprenditore Gian­ni Bonomelli con un gruppo di tossi­codipendenti - . L’ex stopper biondo ha chiuso da un pezzo con il calcio e adesso si diverte a sussurrare ai ca­valli della scuderia e a giocare a bri­scola «a cinque» con Davide (uno dei fondatori e responsabile della Co­munità), ma non manca di parteci­pare anche alle partitelle di pallone con quei ragazzi che stanno portan­do avanti la loro sfida alla tossicodi­pendenza. «A loro ho raccontato tutto della mia esperienza. È cominciato tutto quan­do giocavo nel Verona. Ho iniziato per curiosità, come tanti. Una sniffata la domenica sera dopo la partita, poi di­ci: “Se faccio un tiro anche al giovedì che male mi può fare?”. E invece è fi­nita che dopo cinque anni di questa vita ero arrivato al punto di chiuder­mi in bagno a “pippare” anche il sa­bato in ritiro, alla vigilia della gara. E­ro finito in un vi­colo cieco...». Forse se non fos­sero andati ad ar­restarlo sarebbe potuto calare il buio nella sua e­sistenza. «Sono stato otto giorni in carcere (uso personale di 50 grammi di cocaina), ma a ripensarci li ho vissuti da privilegiato: ero il cal­ciatore di serie A, l’uomo pubblico. La prima preoccupazione fu per i miei genitori, mi dispiaceva farli soffrire per quel casino che avevo combina­to. Una settimana prima avevo co­nosciuto Giovanna che poi è diven­tata mia moglie. La sua presenza è sta­ta fondamentale. Ma la cosa più im­portante in quel periodo fu il grande amore verso il calcio che mi riab­bracciò subito, anche se all’antido­ping poi “casualmente” sorteggiava­no sempre me. Comunque senza la passione per il calcio mi sarei potuto perdere per sempre come è successo a tanti ragazzi della mia generazio­ne... ». Quella “polvere bianca” porta dritto dentro un tunnel che hanno speri­mentato tanti calciatori dopo di lui a cominciare dal più grande di tutti, Diego Armando Maradona il quale ha confidato al regista Emir Ku­sturica: “Senza la cocaina sarei sta­to un giocatore ancora più gran­de”. «E ha piena­mente ragione. La cocaina non serve a niente, non ti fa star me­glio, ma anzi, ti prosciuga il cervello e il portafoglio. Complica ogni cosa con il passare del tempo, ma soprattutto non migliora la prestazione in cam­po. Quando leggo storie come quelle di Bachini e Flachi mi dispiace, ci so­no passato e so che cosa significa. Il danno fisico e mentale non è mica paragonabile allo stop della giustizia sportiva... Quello che mi fa impres­sione è venire a sapere che adesso ci possano essere giocatori che abusa­no della “coca”, mi sembra una storia da fantascienza, anche perché come si fa ad arrivare lucidi in un calcio in cui si gioca a cento all’ora? È vero an­che che rispetto ai miei tempi ades­so la cocaina la trovano dappertutto. Per un giocatore è ancora più facile procurarsela visto che vive in un mon­do dorato e in una dimensione di on­nipotenza che gli trasmettono i tifo­si, la dirigenza, i media. Il problema è che quando diventi dipendente dal­la droga allora le cose cambiano in un attimo, come una partita: le persone cominciano ad allontanarsi e ti la­sciano da solo con il tuo problema. Vedi la fine del povero Edoardo Bor­tolotti... Non so chi avrebbe dovuto aiutarlo, ma penso che si poteva fare molto di più per lui». Parla con la saggezza di un padre Ga­sparini, che adesso nella vita di tutti i giorni si muove con l’autorevolezza “presidenziale” di Giacinto Facchetti che è rimasto il suo punto di riferi­mento. «Il calcio ormai lo vedo solo in tv, ma è un mondo in cui ho incontrato anche tanta bella gente a cominciare da quel monumento di umanità che resterà per sempre Facchetti. Le e­mozioni che provavo in quei 90 minuti giocati al suo fianco rimangono le più forti. Avrei voluto continuare a viver­le fino a cent’anni… Ai ragazzi di a­desso dico che se si ha la fortuna di fare del calcio una professione allora devi giocare con l’anima fino a quan­do le gambe ti sorreggono. La passio­ne non ha prezzo, la cosa più impor­tante non sono i milioni dell’ingaggio, ma l’amore che provi verso questo sport. È grazie a questo amore che puoi salvarti da tanti pericoli e conti­nuare a giocare con l’entusiasmo di un ragazzino anche quando invecchi. Io anche domani gioco lassù al cam­petto con i miei ragazzi. Per loro sono un amico, una persona che capisce il vuoto che sentono nell’anima e che cerca di dare il suo contributo all’in­terno di un progetto molto impor­tante in cui mi sento coinvolto, prima di tutto come uomo».
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