lunedì 20 luglio 2009
Il 15 agosto 1809 apriva al pubblico la pinacoteca milanese, pensata come omologa di quella parigina. Burocrazia e miopia tutte italiane l'hanno resa bisognosa di un rilancio radicale.
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Si riparla di Brera in questi giorni, cioè del Museo, con corrispondente Accademia. Se ne riparla perché sorge il contenzioso fra le raccolte braidensi e chi detiene alcune loro opere, i musei d’Urbino per l’occorrenza, ma altrettanto si potrebbe dire di varie prestigiose istituzioni dello Stato italiano che hanno bisogno di opere per le pareti. Vanno restituite oppure è la stessa Brera che dovrebbe restituire ad Urbino la pala di Piero della Francesca che Eugène de Beauharnais aveva fatto deportare a Milano? Se ne riparla anche parecchio per sapere se si separerà fisicamente dall’Accademia, la quale dovrebbe trovare nuova sede per l’esercito persiano dei suoi iscritti che non riescono più a stare in 4.000 laddove stavano i 200 iscritti del dopoguerra. La dipartita dell’Accademia potrebbe regalare al museo gli spazi per un nuovo allestimento e per avere quelle sale per esposizioni temporanee che sono l’ossigeno necessario al funzionamento d’ogni museo attuale. Se ne riparla perché sarebbe utile che i milanesi e forse anche gli italiani prendessero coscienza che il complesso monumentale contiene anche una delle più importanti biblioteche del mondo, un centro di osservazione e di studio astronomico e un giardino botanico di competenza universitaria che cerca destino e futuro. Vari ministeri, varie facoltà universitarie, varie funzioni più o meno sclerotizzate nella medesima insalatiera. E nessuno che abbia il diritto di coordinare, figuriamoci di comandare! E se ne riparla soprattutto perché ora il museo compie 200 anni – il 15 agosto 1809 la pinacoteca di Brera veniva aperta per la prima volta al pubblico – e ben si sa che in Italia, dove la memoria scarseggia, le cose tornano in mente con maggiore attenzione durante il momento sacro della celebrazione dei genetliaci. Nel 1809 Brera prende forma ufficiale di Museo di Stato nel progetto napoleonico della formazione d’una Europa nuova, la sua, e chimerica. Eugène gioca un ruolo assai importante nel piano (curioso cognome il suo che si adatta alla sua lussuosa vanità giovanile, perché in francese vuol dire «dai bei finimenti equestri»). È il figlio di Joséphine de Tascher de la Pagerie, creola vedova per ghigliottina di Alexandre de Beauharnais, generale sfortunato della Rivoluzione, poi sposa del giovane Bonaparte, istigatrice della campagna d’Italia e infine imperatrice. Nel 1805, per affetto dello stepfather, diventa a ventiquattr’anni l’Eugenio vice re d’Italia e successivamente granduca di Francoforte. Nella mente dell’imperatore l’Europa avrà una supercapitale a Parigi e due capitali dipendenti, Francoforte e Milano. Milano deve quindi generare il suo clone del Louvre che Vivant Denon sta organizzando come scrigno della cultura del mondo sotto la mano dello stesso imperatore. Il Museo milanese diventa centro di raccolta delle depredazioni napoleoniche, trattenendo alcune opere prima dello smistamento verso la Francia e assumendo poi, grazie ad Eugène, una fisionomia e autonomia propria. Da Venezia, la vera vittima della storia, provengono i grandi Bellini, Tintoretto e Carpaccio, dall’area adriatica i Raffaello e i Piero. Vengono tralasciate le zone di Roma dove Luciano Bonaparte, fratello del capo, e Camillo Borghese, il cognato del capo, fanno fronda, viene salvaguardata la Toscana regalata ad un’altra sorella del capo. Per il resto l’Italia vede partire carovane di opere verso il nuovo museo, sotto la somma attenzione di Andrea Appiani, di Antonio Canova e di Giuseppe Bossi, che già nel 1803 aveva curato lo statuto dell’Accademia di Brera che poi avrebbe egregiamente diretto. Le collezioni allora erano strumento didattico per gli studenti e ciò spiega anche l’attenzione particolare ai dipinti di concezione architettonica che servivano a creare lo stile nuovo dei progettisti. Ed è innegabile che la scelta di Brera fu in un certo senso automatica. Era già istituzione «teresiana» da quando l’imperatrice d’Austria aveva soppresso i gesuiti che lì avevano la loro centrale, compresa di biblioteca e di scuole. Vi erano state trasferite quelle Scuole Palatine dove insegnava il Parini e furono conservati con attenzione i laboratori scientifici dove si coltivavano gli speziali da farmacia o si osservavano le stelle sotto la guida del gesuita matematico Boscovich, il geniale croato al quale si devono i calcoli per il collocamento della madonnina sul Duomo. I gesuiti lì avevano preso il posto degli umiliati, già loro cacciati dopo il tentativo di assassinio di san Carlo Borromeo. Storia lunghissima quindi quella dell’edificio, che reca ancora tracce delle chiese duecentesche, prende forma barocca par mano del Richini e si riordina sotto la direzione di Piermarini in gusto neoclassico. Diventa il centro della cultura artistica milanese dell’Ottocento e finisce sotto i bombardamenti dell’agosto 1943. La ricostruzione fu innegabilmente austera e se rispettò la distribuzione passata non ne ritrovò lo splendore. Brera, lentamente s’è addormentata. Brera inesorabilmente s’è bloccata nella crescita delle sue varie funzioni. Richiede oggi un piano riorganizzativo radicale. Sandrina Bandera, nuova sovrintendente, s’è messa al lavoro: alcune sue micro­mostre hanno fatto tornare il pubblico, le sale ridipinte riprendono tono. Gli amici di Brera sono attivissimi. Molto, moltissimo, è ancora da fare…
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