domenica 23 febbraio 2020
Il grande psichiatra che alle soglie dei 90 anni ha pubblicato una riflessione sull’importanza della memoria per elaborare il proprio ruolo nella vita e in questo modo costruire il futuro
Lo psichiatra Eugenio Borgna

Lo psichiatra Eugenio Borgna - .

COMMENTA E CONDIVIDI

Il professore ha sul volto la 'foresta di segni' di cui scrive nel suo nuovo libro: Il fiume della vita. Una storia interiore (Feltrinelli, pagine 192, euro 16). I capelli candidi, gli occhi chiari penetranti, i lineamenti forgiati da un’antica abitudine alla pietà. La foresta di segni del volto di Eugenio Borgna racconta della lunga clausura nel manicomio di Novara, come direttore del reparto femminile; delle sofferenze, dell’allucinata memoria di centinaia di malate. Dolore e speranza, iscritti in quelle rughe. Gli anni, a luglio, saranno novanta. Il libro, dopo tanti scritti da Borgna sulla depressione e la follia, è un viaggio agostiniano «nei vasti quartieri della memoria ». Il grande giardino della casa paterna a Borgomanero, il padre partigiano, l’esilio, con la madre e le sorelle, in uno sper- duto paese di montagna, con l’ansia che arrivassero i tedeschi. Poi la guerra finisce, ma l’esilio lascia per sempre il suo segno.

Professore, lei scrive di «un agostiniano incandescente presente» quando ricorda le lontane estati sugli scogli di Bergeggi «come estati di qualche anno fa». Perché, invecchiando, i ricordi più lontani hanno tinte sempre più smaglianti? Che strano gioco: il tempo è forse come un cerchio che torna su se stesso?

L’idea del cerchio è suggestiva, anche perché i ricordi si autoalimentano, scaturiscono in una sequenza in cui il tempo cronologico è sconvolto, in un’anarchia affine a quella del sogno. Simone Weil come Dostoevskij e Norberto Bobbio ci testimoniano comunque che si vive di ricordi, e che trascurando la memoria si perde di futuro e di speranza. Memoria come speranza di futuro, dice Agostino.

E riprende questo concetto Benedetto XVI in un’udienza dedicata al salmo 136, il Grande Hallel: per gli ebrei la memoria della fuga dall’Egitto era testimonianza della bontà di Dio, e fonte di speranza.

Sì: dobbiamo ricordare ciò che ci è stato dato, per trarne la forza per sperare.

Ma i ricordi ci riportano a ciò che è passato e perduto: non è anche doloroso, ricordare?

Umanamente ciò che è stato può sembrare perduto. Ma la nostra infanzia rivive nella nostra memoria, nel tramandarla ai figli. E se proviamo a scrivere queste memorie, i ricordi rinascono, e vivono di nuovo.

Cesare Musatti, ormai molto anziano, in un’intervista mi raccontò di un bacio che, alla partenza per la Prima guerra mondiale, diede alla sua fidanzata, sul ponte di Bassano, e mi disse: quell’istante esisterà per sempre. A me, giovanissima, sembrò un’illusione.

Concordo pienamente con Musatti. Ci sono cose che non si cancelleranno mai. La nostra memoria è un tesoro. Soprattutto quella dell’infanzia: l’infanzia, che per Rilke è 'fedeltà del cielo'.

In ciascuno di noi quindi c’è un ungarettiano 'Porto sepolto', col suo «inesauribile segreto»?

Sì, in ognuno. Ma in quanti pensano che il riflettere su se stessi sia una perdita di tempo, e si fermano all’osservazione immediata, e hanno il terrore del silenzio, che colmano con il rumore? Guardiamo solo al presente, all’hic et nunc, al massimo all’immediato domani. E così perdiamo il nesso con passato, affetti, dolore, ciò di cui consistiamo.

Lei usa un’espressione, «sciami di ricordi », che fa pensare a una moltitudine di emozioni tale, che nella vecchiaia possa farsi schiacciante.

Credo che si debba accettare anche questa dolorosità della memoria. Alla mia età, almeno, questa dolorosità si mescola con la sua accoglienza. Non bisogna scappare, ma assumersi il dolore. È un concetto cristiano. Occorre anzi porsi come delle mete, essere consapevoli che la sofferenza ha un senso. Il dolore, certo, ci serve a comprendere il dolore degli altri. Ma oltre a questo dobbiamo accoglierlo come qualcosa che, se non viene collocato nell’accettazione del mistero su cui insiste tanto Bonhoeffer, ci consegna a una vita senza spiegazioni, una vita assurda. Mistero che consente di accogliere su un piano di trascendenza le cose che, quando siamo dentro la realtà arida, non accetteremmo mai.

Ogni suo libro è permeato di humus cristiano. Lei scrive di essere cresciuto in una famiglia in cui «la passione umana e cristiana non è mai venuta meno». È stato amico di don Giussani. Eppure lei non parla apertamente della sua fede. E Dio, professore? E Cristo, chi è per lei?

È quello che mi appare in Teresa di Lisieux, Teresa d’Avila, Teresa di Calcutta, che cito tanto spesso. Questo identificarmi non è già testimonianza di fede? Forse trattenuta da un mio tagliente senso del pudore.

Fra pochi mesi, novant’anni: che tempo è per lei questo?

Avanzando gli anni, si scivola in una metamorfosi, sì, ma non in ciò che è il proprio nucleo. Si cambia nell’aspetto esteriore. Ma l’anima resta quella.

Quando si guarda allo specchio al mattino, rivede il suo volto di ragazzo?

Fino a due anni fa ero molto miope, ora sono stato operato, ma i particolari li vedo ancora sfumati. La miopia è una nebbia. E io preferisco questo velo, che quasi mi protegge. Nelle ombre si riflette di più: non si vede tutto, ma solo l’essenziale, e si è più attenti. Per cui - aggiunge sorridendo - allo specchio io scanso l’incontro cui lei accenna...

Nel libro cita Augè, antropologo francese: nella vecchiaia, dice, «il dolore è che gli altri disertano». Si perdono tanti volti cari, andando avanti. Come si regge questa perdita?

Solo, ancora, in una visione cristiana della vita, che ci fa intravedere qualcosa che ci oltrepassa. Si muore, ma non per sempre. Quei volti li ritroveremo. I nonni li rivedrai, mi dicevano in casa, fin da piccolo, una roccia su cui mi sono costituito.

La passione della speranza, è un’espressione leopardiana che lei ama: la speranza di mamma Margherita, del papà Giacomo Luigi, che va partigiano perché crede nella libertà tanto da giocarcisi la vita…

Senza questo humus di speranza non avremmo potuto vivere. Come fanno oggi a vivere senza, in così tanti, mi chiedo. Forse dimenticandosi di sé: vivendo, come scrive Schopenauer, nel presente, senza alcuna memoria.

Sabato 8 febbraio scorso alle sette del mattino, primo titolo sul web del maggiore quotidiano italiano: 'Morgan litiga con Bugo'. Poi sei titoli su Sanremo. Ottavo titolo, 'Macron offre l’atomica francese all’Europa'. In questa distrazione collettiva non viene un po’ di paura?

Sì, se un cantante è un soggetto superiore alla crisi siriana, o ai calcoli delle grandi potenze. E l’idolatria del fasullo, è la smemoratezza: 15 italiani su 100 non credono più all’Olocausto.

L’Occidente avrà presto una popolazione anziana come non la si è mai vista. L’imperativo che viene dato dai media è di comprare, divertirsi, sembrare giovani, soprattutto le donne, per le quali questo sembra un dovere. Ci si può ribellare?

Se la nostra interiorità, non la maschera di una giovinezza artificiale, ma ciò che siamo davvero, mantiene la sua giovinezza, è possibile. Si può vivere nell’accoglienza di ciò che accade, non dentro i confini stretti dell’Io, ma rivolti all’altro: aprendosi all’accoglienza di qualcuno, di qualcosa, della realtà che si presenterà.

«Ciò che viene è bene», scrive nel 1942 un’autrice che lei ama molto, la ventiseienne ebrea Etty Hillesum, in partenza per Auschwitz. E «Padre nostro, sia fatta la tua volontà», pregano i cristiani. È questa la sola strada?

È l’umile «mi affido a te», sempre in quella linea di tradizione di fede che mi è stata tramandata. Nella mia vita, l’unico filo che sostiene la speranza. Salutiamo il professore sul cancello di casa. Si allontana con la sua schiena curva, come se sulla spalla destra portasse un sacco pesante. Come, pensi, un sacco pieno di tutto il dolore ascoltato da mille pazienti malinconiche, o folli. Il professore cammina adagio, il volto mite, sotto agli alberi secolari che lo hanno visto bambino.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: