sabato 14 luglio 2018
A dieci anni dalla scomparsa dello scrittore che per alcuni decenni esercitò la critica militante della letteratura su “Avvenire”: un esempio di rigore e libertà di giudizio
Lo scrittore e critico Giuseppe Bonura, scomparso a Milano il 14 luglio 2008 (Cannarsa)

Lo scrittore e critico Giuseppe Bonura, scomparso a Milano il 14 luglio 2008 (Cannarsa)

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Chissà se Giuseppe Bonura se l’era immaginato così, il mondo dieci anni dopo di lui. Con il tempismo un po’ beffardo e molto rivelatore che sempre lo ha contraddistinto, Beppe è morto a Milano il 14 luglio del 2008, nell’anniversario della presa della Bastiglia, dopo una lunga lotta contro una ma-lattia che aveva in parte rallentato, ma non interrotto il suo paradossale attivismo di pigro confesso. Era una delle leggende che più gli piaceva alimentare, quella dell’immancabile pisolino pomeridiano che in realtà andava a compensare le fatiche di un poderoso lavoro notturno suddiviso tra lettura, scrittura e pittura. L’ironia, declinata anzitutto verso sé stesso, era lo strumento di cui Bonura si serviva più volentieri. Doveva aver imparato fin da piccolo, lui che era nato a Fano, in provincia di Pesaro e Urbino, il 25 dicembre del 1933 e che quindi un compleanno vero e proprio non l’aveva mai avuto. Eppure quelle due date, estreme in ogni senso, lo descrivono alla perfezione: il cristianesimo e l’illuminismo, l’intuito per il mistero e la ricerca di una risposta razionale. Per qualcun altro sarebbe una contraddizione, per lui era un modo – il suo – per guardare alla realtà. Per quarant’anni, a partire dalla fondazione del quotidiano nel 1968, quella di Bonura è stata una delle firme più importanti di Avvenire. Molta, moltissima critica letteraria, ma anche articoli di costume, una stagione di caustiche cronache televisive, interventi estemporanei, racconti. Beppe era un giornalista che sosteneva di non amare il giornalismo, ma forse non bisognava prenderlo alla lettera. Allo stesso modo, nell’autobiografico Le radici del tempo (Avagliano, 2007) affermava di essere finito ad Avvenire solo perché la redazione era più vicina a casa rispetto a quella dell’Unità. Al quotidiano cattolico, però, Bonura era rimasto legatissimo, senza mai rinunciare alla sua passione per la giustizia sociale, per la lotta all’ineguaglianza, per la libertà individuale contrapposta alle costrizioni della massa. Fosse vivo oggi, di sicuro riderebbe di gusto ascoltando certe critiche rivolte a papa Francesco e approverebbe con entusiasmo le prese di posizione del pontefice contro quella che – c’è da scommetterci – Beppe definirebbe “la politica energumena”. Aveva continuato a collaborare ad Avvenire anche dopo la pensione e le sue recensioni (che arrivavano sempre fresche di giornata e rigorosamente dopo l’ora della siesta) erano ogni volta una lezione: di acume e di stile, di inventiva e di rigore morale. Quando sapevano che un libro era stato affidato a lui, gli uffici stampa delle case editrici un po’ si preoccupavano, ma raramente avevano da eccepire riguardo al risultato. La stroncatura, per quanto perentoria, era sempre divertente e argomentata in modo ineccepibile. Si poteva non essere d’accordo, ma non accusare Bonura di malafede o, peggio ancora, di opportunismo. Le camarille, le piccole e grandi cordate, le furberie editoriali erano la sua bestia nera, come si comprende bene dai suoi libri che pure uscivano presso le sigle più prestigiose, da Rizzoli a Rusconi, da Mondadori a Camunia. Beppe non era un critico “puro”, nel senso che la sua scrittura non si occupava soltanto dei testi altrui. Era, in compenso, un narratore purissimo, autore di romanzi e racconti che hanno segnato la seconda metà del Novecento italiano. Dall’esordio del 1966 con Il rapporto fino al testamentario I fuochi parlanti (uscito da Medusa nel 2008, poco dopo la sua scomparsa), la sua è stata un’opera sempre coerente, sempre ispirata a una tensione etica che lo ha portato a indagare i meandri della politica (per esempio in Morte di un senatore, del 1972, in Per partito preso, del 1978) e a rovesciare le convenzioni del poliziesco (la trama di I custodi del silenzio , del 1992, ha la compattezza e la durezza di una novella di Dürrenmatt). Bonura è stato, tra l’altro, uno straordinario autore di racconti, come dimostrano sia La castità dell’ospite (1990), che è forse il suo capolavoro, sia i postumi Racconti del giorno e della notte apparsi nel 2011 da Hacca, nei quali si ritrovano tutti i temi portanti della sua ricerca letteraria: le traversie dell’amore coniugale, l’irruzione dell’assoluto e del fantastico nel grigiore della quotidianità, la contiguità fatale tra colpa e innocenza. La verità è che Bonura era uno scrittore, e tanto dovrebbe bastare, senza alcuna necessità di distinguere tra generi e sottogeneri, tra pratica giornalistica e invenzione narrativa. Era il primo a saperlo, tanto da escogitare una soluzione di geniale semplicità, che gli aveva permesso di far confluire un mestiere nell’altro. Il gioco del romanzo – pubblicato nel 1998 a Giunti per iniziativa dello scrittore-editore Raffaele Crovi, da sempre suo amico e complice – annuncia fin dal titolo la compresenza dei due livelli. L’espediente è quello classico del Decameron , anche se questa volta a bloccare gli amici in villa è una tempesta di neve e al posto delle novelle ci sono le recensioni accumulate dallo stesso Bonura tra il 1970 e il 1995, nel quarto di secolo che ha visto la progressiva degenerazione dell’industria culturale, il tradimento della borghesia intellettuale perfino ai danni di sé stessa, il trionfo dell’omologazione massmediatica. Beppe, che di ogni articolo scriveva prima una versione a mano su uno dei suoi famosi «quaderni a scacchi», non ha fatto in tempo a conoscere i social media, ma di sicuro sarebbe stato capace di raccontarli come nessun altro, così come avrebbe avuto parole fulminanti e definitive su questa stagione segnata dalla paura dell’uomo nero, dai sovranismi approssimativi e da best seller che durano lo spazio di un video su YouTube. Se lo sarà immaginato così, il mondo in cui viviamo oggi? Non si può escluderlo, perché la dote principale di ogni scrittore (e in particolare di uno scrittore come Bonura, così estraneo al pregiudizio da farsi beffe perfino di sé stesso) consiste nel vedere prima e meglio degli altri. Di sicuro, quando ci si imbatte in una delle sue recensioni, si è sempre colpiti dall’esattezza di un giudizio che magari all’epoca era tutt’altro che popolare o condiviso, ma che con il tempo ha finito per imporsi. I suoi, del resto, non erano semplici resoconti di lettura, ma racconti critici tanto più raffinati nella sostanza quanto più si sforzavano di apparire svagati nell’articolazione. Ce ne siamo resi conto, qui in redazione, quando abbiamo attinto al giacimento delle sue recensioni per un’antologia edita sempre da Medusa nel 2010 con un titolo che era già di Bonura e che, a ben vedere, riassume tutta la sua intransigenza di critico militante: L’industria del complimento. Provate a sfogliarlo e poi dite se non vi viene la curiosità di sapere che cosa scriverebbe oggi l’inflessibile Bonura.

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