venerdì 6 marzo 2020
Al Rijks Museum una mostra, tutta “italiana”, confronta i due geni. Nove sezioni intitolate con termini della nostra lingua. Peccato che il catalogo non abbia una versione per i nostri visitatori
Michelangelo Merisi da Caravaggio, «Incoronazione di spine» (Vienna, Kunsthistorisches)

Michelangelo Merisi da Caravaggio, «Incoronazione di spine» (Vienna, Kunsthistorisches) - .

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Dopo aver messo in scena l’anno scorso un sibillino rendez-vous fra Rembrandt e Velázquez, il Rijks Museum propone da un paio di settimane una sceneggiatura tutta italiana imperniata ancora su una coppia di nomi eccellenti: Caravaggio e Bernini. Una mostra del genere – Caravaggio-Bernini. Early Baroque in Rome Fino al 7 giugno – non s’era mai fatta, e la prima tappa è stata qualche mese addietro al Kunsthistorisches di Vienna, che possiede tre Caravaggio (La grande pala della Madonna del Rosario, una delle versioni del Davide con la testa di Golia, l’Incoronazione di spine) e vari caravaggeschi, ma non Bernini; il Rijks Museum, invece, non possiede né l’uno né l’altro. A Vienna l’accento cadeva sui sentimenti, ad Amsterdam il sottotitolo rimanda al primo Barocco.

Gian Lorenzo Bernini, «San Sebastiano» (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, particolare)

Gian Lorenzo Bernini, «San Sebastiano» (Madrid, Museo Thyssen-Bornemisza, particolare) - .

Nel 2006, quarto centenario della nascita di Rembrandt, Amsterdam propose l’ennesimo abbinamento, questa volta al Museo Van Gogh, che poneva l’uno di fronte all’altro Caravaggio e il pittore olandese: una quindicina di opere del nostro e venti di Rembrandt. Anche qui, poco da dirsi alla luce delle analogie, mentre a prevalere, allora come nell’attuale mostra, pare sia una sorta di “gusto delle differenze”. Se nel 2006 il numero di opere permetteva un maggior gioco e una certa flessibilità nell’accostamento di temi, dimensioni dei quadri e nella connotazione degli stili, in quella che si è da poco aperta al Rijks l’elemento di distinzione fra i due geni italiani diventa esercizio di inclusione che, in qualche modo, trasforma Caravaggio e Bernini in virtuali parentesi, quelle che per i fenomenologi delimitano una epochè, ovvero una sospensione del giudizio e delle certezze conoscitive (tema assai più antico), dove tale riduzione conduce l’io dello spettatore a concentrarsi sulle cose esposte in modo quasi estatico per ciò esse fanno risalire alla mente.

Gian Lorenzo Bernini, «Ritratto di Thomas Baker» (Londra, Victoria & Albert Museum, particolare)

Gian Lorenzo Bernini, «Ritratto di Thomas Baker» (Londra, Victoria & Albert Museum, particolare) - .

Diciamo che ad Amsterdam siamo spinti a vedere Caravaggio e Bernini come sigilli ipotetici all’insieme di artisti che hanno operato in quel periodo e che ora si sdipanano lungo le sale del museo – ottimo ed elegante l’allestimento con pareti che passano dal giallo tenue, al rosa, al grigio perla, con sbalzi di altri colori più forti. Una mostra, dunque, che ci ricorda la varietà dei linguaggi, degli stili, il tema del naturalismo e la dialettica con quel classicismo che, dopo i Carracci (vedi lo straordinario quadro di Ludovico che raffigura San Sebastiano gettato nella Cloaca Maxima, proveniente dal Getty Museum), approda a una sorta di congelamento mentale con Poussin, del quale viene presentata, tra l’altro, la bellissima tela con La distruzione da parte dell’imperatore Tito del Tempio di Gerusalemme del Kusthistorisches, datata 1635, cioè già oltre la fatidica e simbolica data da cui si è soliti far partire il Barocco, il 1630. Si noti il particolare in primo piano dei morti, le teste tagliate, cromaticamente ridotti quasi a forme minerali o comunque a corpi scultorei. Lo si potrebbe dire appunto un Barocco freddo. Nel saggio introduttivo al catalogo intitolato “Antico e nuovo ombelico del mondo”, Stefan Weppelmann comincia raccontando il raid notturno degli sgherri di Scipione Borghese che nel 1608 portarono via da Perugia la Pala Baglioni, ovvero la Deposizione di Raffaello, per consegnarla alla collezione del prelato che più di tanti altri segnò l’orizzonte artistico romano coi suoi appetiti predatori e le sue capacità di intuire al volo ciò che valeva da ciò che poteva essere tranquillamente tralasciato.

Altro nome che Weppelmann chiama in causa è Maffeo Barberini: ricorda la sua azione per le arti e la cultura già all’epoca in cui vestì la porpora cardinalizia ma soprattutto quando divenne papa col nome di Urbano VIII, dove oltre a farsi promotore di artisti come lo stesso Poussin e l’altro grande francese, Claude Lorrain, commissionò a Bernini il proprio monumento funebre. Anche queste due figure della Chiesa romana sono come due analoghe parentesi che delimitano un tempo cui associare Caravaggio e Bernini. E nella mostra di Amsterdam sono esposti, come opere di Caravaggio, il ritratto di Maffeo Barberini da giovane, quando ancora doveva essere creato cardinale, e il Narciso oggi del Museo che porta il nome di famiglia del futuro Papa e mecenate di Bernini, dove arrivò per donazione nel 1914. Due opere che lasciano dubbi sull’autografia caravaggesca, però.


Caravaggo, «Narciso» (Roma, Museo di Palazzo Barberini)

Caravaggo, «Narciso» (Roma, Museo di Palazzo Barberini) - .

Molti anni fa, agli inizi di ottobre del 1995, partecipai come semplice uditore al convegno di Roma su Caravaggio. La vita e le opere attraverso i documenti, dove tra l’altro vennero presentati da Rossella Vodret i risultati del restauro che aveva riportato il Narciso a miglior leggibilità. Ebbi l’occasione di ascoltare alcuni commenti della studiosa rivolta allo storico Maurizio Calvesi, massimo esperto all’epoca e ancora oggi, del Merisi, la quale vedeva nel bianco della camicia indossata da Narciso il segno palmare dell’autografia caravaggesca. E Calvesi concordava: è suo quel bianco, non c’è dubbio. Si deve dire che il Narciso, ancora oggi, nonostante la precoce attribuzione di Longhi, è da alcuni messo in discussione; non senza ragioni, si indica come possibile autore lo Spadarino. A me è soprattutto il riflesso sull’acqua che non convince, Caravaggio, a mio parere, gli avrebbe dato una intensità più scioccante e metafisica, mentre nel quadro ciò che vediamo è piuttosto il riflesso indeciso di chi non sembra nemmeno rendersi conto del mistero di quell’immagine di fronte a sé, come se quella rivelazione non si trasmettesse all’occhio bovino del personaggio, cieco all’intelligenza di ci ciò che sta manifestandosi.

A volte l’imprimatur posto da un grande critico su un artista che lui stesso ha contribuito in modo decisivo a riscoprire rendendogli ciò che è suo, parlo è chiaro di Roberto Longhi e di Caravaggio, può fermare per decenni gli studi e l’immaginazione che deve soccorrere anche agli storici quando studiano un fatto, un personaggio, un periodo tutto da scoprire. Naturalmente, non devono venirne voli pindarici, anzi; nel caso di Longhi, cominciò coi retaggi della filosofia idealista per poi transitare poco alla volta a un concetto più terragno o lombardo di Caravaggio che, contro ogni evidenza, sembra minimizzare il peso esercitato sul Merisi dalla cultura romana del suo tempo (basti dire delle sofisticate letture e della passione per i testi esoterici del suo primo protettore, il cardinal Del Monte) e dalle vestigia dell’arte antica ma anche dalle testimonianze rinascimentali. Il peso autorevole di Longhi è all’origine, per esempio, delle sottovalutazioni per molte decenni del ruolo che ebbe la pittura veneta nella formazione del giovane artista, prima col praticantato nella bottega del Peterzano (tema presente, ma quasi come allusione non esplicitata, nella mostra in corso a Bergamo sull’alunno di Tiziano) e poi quasi certamente con viaggi in proprio verso Venezia.

Se Longhi nel catalogo della mostra su Caravaggio del 1951 definisce il pittore «portiere di notte del Rinascimento» ironizzando su chi non capì allora e anche dopo la svolta impressa dal Merisi nella storia della pittura, in realtà, come altre sferze del grande critico, questi sarcasmi possono (o devono?) costituire un punto di ripartenza anche per rimettere alla prova ciò che sappiamo, o abbiamo imparato, dalle diverse vulgate degli studi caravaggeschi.

Per finire, scrivendo della mostra dedicata a Van Eyck mi è accaduto due settimane fa di osservare che, nonostante le molte implicazioni storiche e attuali con l’Italia, a cominciare dai prestiti prestigiosi, la mostra di Gand non è accompagnata da una versione italiana del catalogo; ma che questo accada anche con la mostra italianissima di Caravaggio e Bernini è letteralmente scandaloso. Tanto più che tutte le sezioni della mostra, ben nove, sono intitolate con termini italiani che esprimono le passioni umane. Saremo anche un Paese in crisi, ma in questa materia possiamo dare ancora qualche lezione – e nonostante i direttori stranieri dei nostri musei – ai sodali europei. Sarebbe bene che, quand’è il caso (e quale se non questo?), anche loro se ne ricordassero.

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