sabato 21 gennaio 2023
Debutto dietro la cinepresa con “Io vivo altrove!”, ora in sala, commedia ispirata a Flaubert. «Due amici sognano la campagna: inno all’ottimismo». A teatro con "La valigia" dell'esule russo Dovlatov
Giuseppe Battiston sul set del suo primo film da regista "Io vivo altrove!"

Giuseppe Battiston sul set del suo primo film da regista "Io vivo altrove!" - Foto di Emilia Mazzacurati

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Giuseppe Battiston è uno di quei personaggi colti e ironici al tempo stesso, con cui è un piacere discorrere con apparente leggerezza sul senso della vita. Cosa che si rispecchia nei suoi lavori cinematografici o teatrali, sempre di qualità. Da pochi giorni ha appena debuttato in scena ne La Valigia, regia di Paolo Rota, un racconto sui pensieri di un migrante alla vigilia della partenza del giornalista e scrittore russo Sergei Dovlatov, morto in esilio nel 1990, (sarà al Teatro Nuovo di Verona dal 31 gennaio e poi in tour). Ora l’attore friulano, classe 1968, debutta anche alla regia cinematografica con un piccolo gioiellino, Io vivo altrove! appena arrivato nelle sale, commedia gentile ispirata al romanzo Bouvard e Pécuchet di Flaubert. Che nella versione del film, da lui anche prodotto con la sua Rosamont con Rai Cinema e Stargara, diventano Fausto Biasutti e Fausto Perbellini, bibliotecario l’uno, addetto alle letture dei contatori del gas l’altro. Ambedue odiano la vita nella grande città. Si conoscono per caso durante una gita per fotoamatori, diventano amici e iniziano a coltivare insieme il sogno di andare a vivere in campagna, mantenendosi con il frutto delle proprie fatiche. Quando l’ottimista Biasutti (un sempre centratissimo Giuseppe Battiston) eredita la vecchia casa della nonna a Valvana, sulle colline del Friuli, anche il timido Perbellini (un ottimo Rolando Ravello) si aggrega in una nuova avventura, che però dovrà scontrarsi con le difficoltà dell’improvvisarsi contadini e con l’accoglienza del paese, non proprio calorosa.

Battiston, questo è un film che ha molto a che fare con le sue radici?

Mi sono attenuto ai consigli di Ken Loach, che suggerisce agli esordienti di parlare di se stessi, delle proprie radici. Io sono un esordiente alla regia, ma non volevo parlare delle mie origini in prima persone. Così insieme al cosceneggiatore Marco Pettenello ci siamo inventati due personaggi, basandoci sul romanzo di Flaubert, un capolavoro di cui sono innamorato. Avevamo una condizione di vantaggio: è l’unico romanzo incompiuto dell’autore, potevamo liberare la fantasia.

Quali sono i punti di contatto e le differenze con Flaubert?

Abbiamo preso i due protagonisti e alcune loro disavventure, e poi abbiamo creato una fiaba che parla di due persone che si conoscono, che diventato amiche e che vogliono darsi una seconda possibilità. Una storia che parla di amicizia, riscatto, della possibilità di credere alle cose fino in fondo, di come nutrire i sogni. Attraverso l’apertura verso il prossimo si può ritrovare un centro anche per noi stessi.

Lei interpreta un inguaribile ottimista nonostante le difficoltà e i fallimenti della sua nuova vita.

Fausto Biasutti è un Don Chisciotte della positività. Sembra ingenuo, ma insegue la felicità a tutti i costi, le difficoltà non lo scalfiscono, vede i pregiudizi ma decide di andare oltre. Come gli dice con affetto il prete del paesello, loro due hanno fede in qualcosa: è tutto quello che ti permette di capire che differenza c’è tra una persona che ha una ricchezza propria e una che ha una ricchezza materiale e basta. I miei due personaggi scoprono che si può essere estremamente ricchi riuscendo a campare del proprio lavoro, ogni giorno raccogliendo il proprio radicchio. E’ un dato di fatto.

E’ un film attuale in un momento in cui siamo invitati a rivedere il nostro modello di vita in senso più sostenibile.

Quest’epoca ci ha insegnato a vivere facile: è un’illusione, perché la fatica è legata al raggiungimento di uno scopo. Il fallimento è la base del successo, se hai la forza e la volontà di rialzarti è lì che fai centro.

Questi due personaggi sono due puri di cuore quasi fuori dal tempo.

Sono due personaggi diversi, ma assolutamente complementari. Hanno fiducia nel mondo: Biasutti nell’ottimismo e nell’ostinazione di credere costantemente nel prossimo, Perbellini nello stupore, che va contro il suo carattere introverso, di riuscire a fare cose che non ha mai fatto prima.

Intorno ci sono i personaggi del paese, con la loro schiettezza ma anche con le loro durezze.

Interpretati da attori bravissimi. Sono felicissimo del loro lavoro, sono fortunato perché sono attori abituati all’autorialità, sono capaci di farti proposte nel loro percorso creativo, quello che hanno dato ai personaggi mi ha emozionato.

Come mai Battiston ha deciso di tentare il grande passo della regia?

Tre autori hanno segnato il mio percorso. Carlo Mazzacurati, Silvio Soldini e un altro grande compagno Gianni Zanasi. Tre figure fondamentali cui devo tutto. Sono registi completamente diversi, ma tutti e tre assolutamente liberi nel loro modo di fare cinema . Li porto tutti e tre nel cuore e nel mio lavoro. Ho deciso di darmi alla regia perché mi piace lavorare con gli attori, e mi piace raccontare una storia, qualcosa di originale. Penso che sarà un’esperienza che ripeterò, ma desidero ritagliarmi un ruolo più piccolo in scena per avere più tempo e tranquillità per seguire i progetti.

Quello che sorprende è l’educazione dei due protagonisti che si danno del lei per tutto il film. Una cosa rara oggi…

L’educazione ha una forza dirompente, quasi rivoluzionaria in questo momento. Non mi riferisco alle buone maniere, ma al sentire comune, sentire gli altri, cosa che generalmente lo abbiamo rimosso. Anche per questo ho la speranza che questo film, che è una commedia per tutti, ma con diversi livelli di lettura, possa essere visto il più possibile dallo spettatore che deve andarlo a cercare nelle sale.

A teatro in questi giorni lei è in scena con “La valigia” del dissidente Sergei Dovlatov. Una scelta che a che fare con l’attualità?

Dovlatov è nei miei pensieri da diversi anni, conosco tutta la sua opera, è un autore che amo profondamente. Mi è sembrato interessante raccontarlo per questo aspetto della lontananza, il fatto di lasciare il proprio posto. Quanta gente in questo momento lascia la propria terra, il proprio popolo per cercare una condizione di vita migliore. Bisogna capire cosa intendiamo per vita migliore. Dovlatov viene espulso dall’Urss ed emigra nel 1979 in America, il Paese delle opportunità e della libertà, ma si rende conto che la libertà gli serve a ben poco. E quindi c’è un ritorno da parte sua alla sua terra d’origine, filtrato attraverso la lente della nostalgia, un sentimento gigantesco che solo i popoli di quelle terre dell’Est sanno esprimere in maniera incommensurabile.

Nello spettacolo si chiede quali sono le 12 cose che porteremmo con noi se dovessimo fuggire altrove.

Un’altra cosa che mi è cara di Dovlatov è l’amore per gli ultimi. Lui ammette che per tutta la sua vita è stato attratto da poveri, delinquenti, attori esordienti senza arte né parte. Arriva a dire una cosa fortissima, che “i poveri non sono mai colpevoli”. E quindi il cuore dello spettacolo è proprio lì: se tu dovessi andare via cosa ti rappresenta? quali sono le cose di cui non puoi fare a meno? Questo non riguarda solo la migrazione, riguarda l’intimità di ognuno di noi. Quando capisci che hai poche cose da portare con te ti domandi che cosa è insostituibile: e qui ci si sposta sul piano metaforico del rapporto con se stessi.

Quindi cosa porterebbe con sé Giuseppe Battiston?

Rispondo in modo ironico. Un cavatappi: è sempre un veicolo di socializzazione, manifesta una intenzione di condivisione.

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