venerdì 25 maggio 2018
Il ciclista che negli anni ’70 e ’80 fece sognare gli appassionati ripercorre la sua carriera in un libro «La vittoria più grande? La conversione: ogni giorno mi sveglio felice per quanto ho ricevuto»
Gianbattista Baronchelli vittorioso a Cascia in una tappa del Giro del 1981

Gianbattista Baronchelli vittorioso a Cascia in una tappa del Giro del 1981

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Lì dove il fiume Adda taglia placido le province di Bergamo, Cremona e Milano, gli aromi della campagna svaniscono non appena si varca l’uscio di un negozietto d’altri tempi. Qui l’odore dei copertoni delle biciclette appese rimanda subito a un passato leggendario, di grandi vittorie ma anche di epiche sconfitte. Tutto però è filtrato dalla strana serenità del proprietario che si aggira gioviale tra queste mura su cui spiccano foto e cimeli: «Gestisco questa attività con mio fratello da quasi trent’anni, da quando ho terminato la mia carriera da corridore professionista. Ma più che un lavoro è una passioneSiamo ad Arzago d’Adda, paesino della bergamasca e lui è Gianbattista Baronchelli che qui è cresciuto. Classe 1953, “Gibì” per i tifosi, “Tista” per gli amici, è stato un protagonista negli anni Settanta e Ottanta anche se - come molti ricordano - ha raccolto meno di quel che il suo straordinario talento lasciava presagire. Per chi ha vissuto la sua epopea ma anche per chi ne ha solo sentito le gesta è interessante leggere ora la sua biografia Gibì Baronchelli. Dodici secondi (Lyasys), a cura di Gian-Carlo Iannella (prefazione di Marco Pastonesi). La sua avventura sui pedali comincia molto presto: «La bici è stata l’unica evasione della mia infanzia. A 8 anni davo già una mano ai miei genitori in campagna. Eravamo nove fratelli, dovevamo tutti lavorare. Però sia mio padre che i miei zii erano grandi appassionati di ciclismo. Ricordo ancora quando morì Coppi: a casa c’era un silenzio surreale… Ho iniziato a correre da esordiente a 14 anni con mio fratello Gaetano, di venti mesi più grande di me, e con lui ho corso anche tra i professionisti».

L’avvio è strepitoso. Già tra i dilettanti Gibì mette in luce la sua classe imponendosi in due prestigiose corse: il Tour de l’Avenir (il Giro di Fran- cia dei dilettanti) e il Giro d’Italia. L’anno successivo, nel fatidico 1974, alla prima stagione da professionista firma la sua impresa più famosa: al Giro, mette in difficoltà il “Canniba-le”, Eddy Merckx, staccandolo addirittura in una tappa memorabile sulle Tre Cime di Lavaredo. Il campione belga deve sudare non poco per mantenere la maglia rosa e riesce a vincere quel Giro proprio per quei “dannati” dodici secondi (richiamati nel titolo della biografia). «Pazzesco, mi sono ritrovato a duellare col mio idolo, Eddy Merckx...». L’exploit di Gibì fa sognare la stampa e tutti gli appassionati italiani. Ma almeno nelle grandi corse a tappe la vittoria sfuma sempre sul più bello: terzo nel Giro del ’77, secondo in quello del ’78 e in altre sette occasioni chiude tra i primi dieci della classifica generale: «Più che il Giro del 1974 il rammarico maggiore ce l’ho per quello del ’78 dove sono arrivato secondo ad appena 59 secondi dietro un corridore “normale”, il belga Joahn De Muynck. Certo non dimentico la medaglia d’argento ai Mondiali di Sallanches. Ma in quel caso sono arrivato alle spalle di Hinault, un altro “mostro”…».

Baronchelli non ha rimpianti: «Doveva andare così. L’impatto coi professionisti è stato duro, i giornali mi esaltavano troppo, avevo tante pressioni. Riconosco i miei limiti anche se non ho avuto nemmeno tanta fortuna. Nel 1974 un mese dopo il Giro sono caduto e ho rotto l’omero: novanta giorni di gesso e tre operazioni. L’anno dopo mi hanno riscontrato un’epatite virale… Poi perdi un Giro ne perdi uno ne perdi due ne perdi tre… anche psicologicamente di sicurezze ne hai meno. Ma sono soddisfatto della mia carriera». Nella sua bacheca spiccano anche il record di sei Giri dell’Appennino consecutivi (dal 1977 al 1982) e due Giri di Lombardia vinti a distanza di nove anni (1977 e 1986): «Il secondo è stato il mio successo più bello, perché tanti mi davano per finito e invece sono arrivato solo sul traguardo al Duomo di Milano». Una novantina in tutto le vittorie eppure viene ricordato soprattutto per le grandi sconfitte: «Qualche anno fa mi dava un po’ fastidio. Oggi per niente. Anzi dico: “Beati gli ultimi”… Hanno detto che ero poco “cattivo”, ma sono consapevole di aver dato tutto. Poi ciò che conta è essere ricordato come un uomo leale. Mi sento fortunato: ho amici e tifosi che ancora oggi mi stimano e mi vogliono bene. Ho conosciuto persone generose come Franco Bitossi. Sono stato in squadra con Saronni con cui ci assomigliavamo per carattere, entrambi schivi e introversi. E anche con Moser, sebbene con lui ci sono state incomprensioni: ma di recente dopo anni ci siamo sentiti e chiariti. Mi è stato insegnato dai miei genitori a non portare rancore e a perdonare, anche chi si comporta male con te. Nessuna vittoria vale quanto la tua coscienza».

Decisivo è stato per Baronchelli un altro traguardo: «Il giorno più bello della mia vita è stato anche il più doloroso, la morte di mia madre nel 2011, una donna molto credente. È iniziata lì la mia svolta perché prima ero cattolico ma non avevo ancora conosciuto la fede. Da allora, grazie ancora a mio fratello, ho cominciato un cammino di fede che mi fa alzare tutti i giorni felice e correre al Santuario di Caravaggio a ringraziare il Signore per quanto mi ha dato. Adesso riesco ad accettare anche gli eventi più dolorosi. E poi se mi guardo indietro: cosa contano le vittorie? Niente se non corriamo per conquistare il Paradiso». Certo la bici gli è rimasta nel sangue: «Faccio ancora 5 mila chilometri l’anno. Ma basta salite, evito anche i cavalcavia più duri… Pantani è stato l’ultimo a emozionarmi. Oggi mi rivedo in Nibali che ha vinto più di me ed è un corridore serio. Il ciclismo è uno sport meraviglioso che mi ha insegnato tanto. Ma non è stato difficile smettere: avevo voglia di tornare a casa e godermi la mia famiglia. I miei tre figli sono stati un grande dono. Se un giorno avrò nipoti e vorranno fare questo sport non potrò nascondergli che si fa tanta fatica ma dovranno essere liberi di seguire il loro istinto. Di sicuro mi impegnerò prima di tutto a trasmettergli la fede. Poi dirò loro che sono stato anche un corridore».

Gian-Carlo Iannella
GIBÌ BARONCHELLI
Dodici secondi
Lyasis. Pagine 200. Euro 14,00

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