giovedì 19 novembre 2020
Il suo cristianesimo, impastato di sofferenza e angoscia, è costretto a misurarsi con le tragedie del mondo e a non ergersi dinanzi a esse con un senso di superiorità
Carlo Bo

Carlo Bo - -

COMMENTA E CONDIVIDI

Le profetiche parole di Bernanos sulla civiltà degli automi costituiscono una chiave di lettura per comprendere il magistero di Carlo Bo. Che rifacendosi al grande scrittore francese così appuntava nel 1959: «Non si può capire niente della civiltà moderna, se prima di tutto non si riconosce che essa è una cospirazione universale contro qualsiasi forma di vita interiore». Il critico letterario non pensava certo alle teorie dei complotti, quanto all’idea di un progresso tecnologico puramente materiale che era preponderante nel secondo dopoguerra, a scapito di ogni approfondimento spirituale. Al tempo stesso, in lui non albergava nessun rifiuto della modernità, anzi egli esprimeva una critica serrata verso la difesa di schemi del passato propria di un certo cattolicesimo europeo che si arroccava nella mera difesa della tradizione, senza alcuna apertura verso il nuovo, rischiando di diventare «formale o estetizzante». La figura di Bo come intellettuale cattolico emerge chiaramente nel saggio di Vincenzo Gueglio Carlo Bo, agonista, appena uscito per le edizioni Oltre di Sestri Levante (pagine 324, euro 21,00), la località ligure in cui era nato. In realtà a Bo non piaceva affatto la qualifica di “scrittore cattolico” o “critico cattolico”, semmai si definiva un cattolico che pensa e che scrive. E senza dubbio egli fu un cattolico insofferente ai cliché, spesso anticonformista e tutt’altro che bigotto.

Il suo era un cristianesimo “agonico”, come suggerisce il titolo del volume, e perciò ispirato alla lezione di Pascal, Kierkegaard e Manzoni, nonché dei grandi scrittori francesi del Novecento: un cristianesimo impastato di sofferenza e angoscia, costretto a misurarsi con le tragedie del mondo e a non ergersi dinanzi a esse con un senso di superiorità. Davanti alle sfide immani del mondo moderno, Bo scelse subito di stare dalla parte di Maritain e Mounier: «Sono stati loro a riportare davanti ai nostri occhi l’uomo, l’uomo quotidiano, l’uomo che soffre dell’ingiustizia, che ha fame, che è costantemente avvilito da chi è sopra». Così scriveva nel 1959, in La lettera che uccide. Slogan coniato da Mauriac per denunciare chi in quegli anni usava il cattolicesimo come bandiera, che pretendeva un’obbedienza “alla lettera” e ignorava completamente il problema dei poveri. Un cattolicesimo Ancien Régime, che solo con il Concilio sarebbe stato abbandonato. Un anno dopo, nel saggio Un’idea di libertà, Carlo Bo si faceva portabandiera di «una religione più vicina, più capace di capire e di aiutare il cuore dei diseredati e degli umiliati». E nel 1964, in Siamo ancora cristiani?, invitava i credenti a «vivere con delle armi imperfette, il che equivale a dover continuamente fare i conti con quello che non sappiamo, con la parte del mistero». Erano gli anni in cui Bo accettava di collaborare con “Il Politecnico” di Vittorini, il quale aveva sollecitato i cattolici italiani a fare mea culpa per i decenni di compromissione con il fascismo: com’era possibile che, in una civiltà come quella europea permeata dal cristianesimo e dai valori liberali, si siano verificati orrori come Auschwitz, Dachau e Mauthausen? Pur senza scendere sul terreno provocatorio dell’intellettuale comunista, al quale Bo rispose con il testo Cristo non è cultura, il critico riconobbe, ben prima di Giovanni Paolo II, «il tradimento fatto al Verbo».

Sempre in quel periodo Carlo Bo avrebbe protestato per la condanna delle opere di Miguel de Unamuno da parte del Vaticano, così come successivamente avrebbe difeso Pasolini e Testori. Anche qui, come in precedenza, egli fu sempre capace di unire impegno letterario e civile, a partire da quell’assunto “Letteratura come vita” che nel 1938 aveva contrassegnato la sua attività intellettuale. La letteratura per lui era e resterà per sempre una condizione e non una professione: di qui la sua diffidenza verso la letteratura che non è ricerca della verità e la sua polemica verso la narrativa contemporanea perlopiù debole e anemica, incapace di interrogazione e perciò di porsi domande anche filosofiche e di scuotere le coscienze. Il volume di Gueglio, che ha una prefazione di Francesco De Nicola – il quale sottolinea come Bo non sia incasellabile in nessuna definizione – ricostruisce i passaggi fondamentali dell’opera del letterato: dalla partecipazione, negli anni giovanili a Firenze, alla fondazione della rivista “Il Frontespizio” all’amicizia con Luzi e Parronchi, dal suo insegnamento all’università sino all’incarico di rettore a Urbino e alla sua collaborazione con il “Corriere della Sera”. Un magistero che ha segnato tutto il ‘900. Anche per “Avvenire” accettava volentieri di scrivere, e lo fece ad esempio nel 2000, in occasione del cambio di millennio. In un breve articolo, riuscì a delineare una delle questioni cruciali del terzo millennio, lasciando come consegna la difesa dell’umanesimo. Eccone un brano: «La sopravvivenza, fisica e morale, di ciò che costituisce il fattore umano: questa sarà la magna quaestio del prossimo futuro. Il problema drammatico della civiltà che si affaccia col nuovo secolo sarà il poter ritrovare le ragioni ultime di quei valori che consentono una vita umanamente a umanisticamente motivata, che tenga conto non solo delle cose visibili, ma anche e soprattutto di quelle invisibili».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: