venerdì 24 marzo 2023
L’Annunciazione di Artemisia Gentileschi non è solo l’opera di una grande artista ma manifesta un'espressione di fede che non si può esprimere se non lo si possiede
Artemisia Gentileschi, "Annunciazione" (1630),  particolare

Artemisia Gentileschi, "Annunciazione" (1630), particolare

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Se non siete mai stati al Sacro Monte di Varese, è ora di rimediare. Potete farlo in qualunque momento, senza orari né prenotazioni. Quelle cappelle, patrimonio dell’Unesco, ci aspettano da quattrocento anni. Lungo la salita si dispongono le cappelle, vere chiesette, chicche architettoniche a gara di bellezza, e ognuna contiene, come un palco teatrale, un mistero del rosario raffigurato con statue e affreschi a grandezza naturale. Guardiamo la prima scena, l’Annunciazione. Una stanza con le pareti in cotto, con il focolare, le mensole, la cassepanche, un letto a baldacchino, le scarpe di Maria messe in ordine ai piedi del letto. Maria sta pregando su un inginocchiatoio quando all’improvviso irrompe l’arcangelo Gabriele sopra un mucchietto di nuvole, con una mano le offre il giglio della purezza e innalza l’altra in segno di saluto ma anche per indicare lo Spirito Santo, una colomba di bronzo pronta a scendere. «Rallegrati, piena di grazia!». Maria fa appena in tempo a mostrare il suo stupore quando la scena si ferma, si congela, si paralizza per sempre.

Oggi non è permesso, ma si potrebbe entrare in questa stanza e muoversi in questo mondo virtuale, in quest’ologramma di altri tempi. Noteremmo che un felice restauro ha ridato morbidezza a tutta la scena, e vivremmo quasi nella realtà di un momento che è stato vero, non di una storia raccontata. Era questo l’intento dei sacri monti, proporre a tutti una spiritualità contemplativa, «visiva», che si sente parte attiva dei misteri.

Autore delle statue, e dell’ordinamento della scena, fu Cristoforo Prestinari nel 1610. Certo i sacri monti hanno un’anima teatrale, «il gran teatro montano», li chiamava Testori. E nel teatro lo spettatore rimane fuori. Più di così non si poteva fare. Ma il Seicento feroce, il Seicento visionario aveva ancora ben altro in serbo. Un salto enorme dalla devozione alla grande arte. O meglio, la devozione espressa dalla grande arte. Ci riuscirono in pochi, ma accidenti se ci riuscirono!

Voglio parlarvi di un dipinto che ritengo un vertice della pittura di tutti i tempi: l’Annunciazione di Artemisia Gentileschi, esposta in questi giorni alle Gallerie d’Italia di Napoli ma la sua casa è il Museo di Capodimonte. Ha fatto poca strada. Si può stare le ore a guardare questa genialità del 1630. Poche volte la nostra pittura ha raggiuto una tale compenetrazione col soggetto, una simile espressione di ciò che è inesprimibile, tanta equilibrata bellezza. Qui vengono superate le sottigliezze del padre Orazio, s’impone l’irresistibilità e perfino la brutalità della forza di questa donna.

Siamo in uno spazio buio, in questo senso caravaggesco. Dall’angolo superiore sinistro irrompe una luce soprannaturale con lo Spirito Santo che scende, anzi punta in picchiata, le ali raccolte all’indietro. Magicamente illuminato da qualche altra fonte di luce, davanti a noi emerge l’angelo con un ginocchio a terra. Un giovane leggermente femmineo con una tunica giallo indiano (il giallo di Artemisia) che scende fino a terra piegandosi in affascinanti giochi di luce e semiluce. Allarga entrambe le braccia – l’abbondante camicia arrotolata fino ai gomiti – a formare un arco. Con una mano indica lo Spirito che discende, con l’altra regge il giglio della purezza. Maria, ci racconta, intatta la sua verginità, sarà madre per opera dello Spirito Santo. L’arco delle braccia dell’angelo si prolunga idealmente nel corpo curvo di Maria e nel drappeggio oscuro a formare un ovale. O forse un grembo. La Madonna è arretrata di un piano. S’inchina umilmente con una mano sul petto ma con l’altra sollevata nella domanda: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo? Insomma, io avevo altri piani con Dio e… non capisco. Dovrei lasciar perdere?». «No, Maria, Dio è più grande di noi e ne sa più di noi, e ti farà madre per opera dello Spirito Santo, non di un uomo. Guarda lassù». Maria, pur nel turbamento, comincia a capire. «Il tuo figlio non sarà un bambino come gli altri, sarà santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio».

San Bernardo scrisse nottetempo, per non togliere nulla alla sua intensa attività, le famose omelie sulla Madonna. E in una di esse immagina quel momento di sospensione trepida tra l’annuncio dell’angelo e il sì di Maria. In tono appassionato si rivolge alla Vergine: «Hai sentito, o Vergine, il fatto; hai sentito anche il modo. [...] Fa’ che anche noi possiamo sentire da te l’annuncio gioioso che desideriamo. [...] L’angelo aspetta la tua risposta: ormai è tempo che egli ritorni a colui che lo ha mandato. Stiamo aspettando anche noi, o Signora, la tua parola di compassione, noi che siamo miserabili sotto il peso di una condanna. Ora, ecco che ti è offerto il prezzo del nostro riscatto: se vi acconsenti, noi saremo immediatamente liberati. Siamo stati tutti creati nell’eterno Verbo di Dio, eppure stiamo morendo; nella tua breve risposta sta la nostra guarigione, la nostra vita». Allora Maria si portò la mano al petto, a quel cuore che batteva all’impazzata, e disse: «Io ho sempre cercato di fare la volontà di Dio. Lo farò anche questa volta. Ecco l’ancella del Signore, avvenga in me come tu dici».

Artemisia era così fiera di questo quadro che lo firmò in modo visibilissimo su un cartiglio: « Artemisia Gentilescha f[ecit] 1630». Tutta la critica è concorde nell’affermare che l’opera rappresenta il punto più altro del periodo partenopeo della pittrice. La presenza di Artemisia a Napoli, ultima tappa della sua carriera, è attestata tra il 1630 e il 1654, interrotta da una parentesi a Londra tra la primavera del 1638 e quella del 1640. A Napoli morì e fu sepolta nella chiesa di San Giovanni dei Fiorentini. Oggi la sua tomba e la sua lapide sono andate perdute.

Di Artemisia si è scritto tanto ultimamente. Limitiamoci perciò a segnalare ciò che la produzione napoletana rende ovvio: siamo di fronte a una donna con la professionalità, l’imprenditorialità e la capacità di lavoro che potevano avere i migliori pittori dell’epoca. E con una qualità pittorica molto spesso superiore. La vediamo, donna fortissima, nelle vesti di santa Caterina d’Alessandria in un autoritratto recentemente acquisito dalla National Gallery di Londra. O in quello come allegoria della pittura, e altri dipinti in cui si ritrae, determinata ma con un velo di malinconia. Si è troppo insistito sul processo per stupro subito in giovane età. Brutta cosa che il processo lo affronti la vittima anziché l’aggressore, che restò a piede libero, complice anche la viltà di papà Orazio. Ecco la ragione, si dice, per cui Artemisia dipinge tanto volentieri le eroine bibliche e pagane e arriva a un realismo inquietante nel soggetto di Susanna insidiata dai vecchioni.

Sarà, ma non si può ridurre a una pattina psicanalitica la complessa personalità della donna. Innanzitutto, appunto, era una donna e si doveva guadagnare qualunque cosa. Niente privilegi, nulla scontato, semmai il contrario. E riusciva al meglio quando poteva infondere nelle sue donne quel tono orgoglioso, fiero, sicuro di sé. In questa Annunciazione non c’è l’effigie di Artemisia, ma c’è ben di più, un’espressione religiosa che non si può improvvisare se non la si possiede. La sua fortezza veniva anche da questa fede, salda malgrado le traversie che la vita le impose, non solo quella giovanile. Avrà guardato il quadro finito, sorpresa di se stessa. La sua opera era andata aldilà delle sue intenzioni, aveva dipinto quel giorno in cui è cambiata la storia.

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