
Lo scultore Arnaldo Pomodoro (1926-2025) - Fotogramma
Alessandro Beltrami«L’arte è un labirinto» diceva Arnaldo Pomodoro. L’artista è scomparso domenica nella sua casa di Milano. Oggi avrebbe compiuto 99 anni. Una vita e una carriera che hanno attraversato il Novecento, un’esperienza portata nel corpo delle sue sculture – macchine complesse che avevano superato lo scoglio tra linguaggi d’avanguardia e grande pubblico. Le sue grandi sculture che combinano utopia futuribile e misteri arcaici, sono divenuti landmark di molte città italiane e di tutto il mondo, a partire dalla due grandi sfere che campeggiano nel Cortile del Pigna, nei Musei Vaticani, e davanti al Palazzo delle Nazioni Unite, a New York.
Era nato il 23 giugno 1926 a Morciano di Romagna, ma la famiglia si spostò presto a Orciano, 9 chilometri più in là ma già nelle Marche, sempre però Montefeltro. «Ero un ragazzino piuttosto solitario e visionario – raccontava – che pensava e scorgeva gli oggetti in maniera differente rispetto ai coetanei, con cui giocava a volte sulla riva del fiume Conca. L’argilla che si trovava ai bordi di quel fiume immenso e maestoso era meravigliosa, così fine e pulita da rispondere immediatamente al tocco delle dita. Con essa e senza il minimo sforzo da parte mia, creavo delle forme singolari. Mentre i miei compagni abbozzavano bene o male una casa, io plasmavo una casa che in realtà non la ricordava affatto, una casa fantastica, kafkiana». Subito dopo il diploma, trova un impiego nel genio civile: è l’epoca della ricostruzione degli edifici distrutti dai bombardamenti. Ma è subito attivo in campo teatrale per il teatro Rossini di Pesaro le scenografie dell’Oreste di Vittorio Alfieri.
Nel 1953 il grande salto Milano, insieme al fratello Giò, anch’esso straordinario scultore, scomparso nel 2002. Vi era giunto per vedere con i propri occhi Guernica, esposta nella bombardata Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale, e decise di non lasciarla più. Qui incontra Lucio Fontana, che ne loda il talento e l’inventiva, ma da cui Arnaldo desume anche un peculiare pensiero spaziale e una forma che cerca il segreto dell’essere oltre la superficie. Sono gli anni d’oro della scultura italiana, che sia figurativa, astratta o informale. Arnaldo Pomodoro elabora un vero e proprio linguaggio in cui solidi euclidei vedono spaccarsi la levigatissima superficie per rivelare al proprio interno un labirinto di ingranaggi: «La sfera – raccontava – è una forma perfetta racconta e io la rompo per scoprirne l'interno misterioso e nascosto. Nello stesso atto mi libero di una forma assoluta. La distruggo ma insieme la moltiplico». Oppure costruisce stele percorse da una sorta di scrittura cuneiforme generata da ripetizioni e intersezioni di forme geometriche, dove il ritmo musicale dei segni – potremmo dire il significante – ha un valore superiore a qualsiasi misterioso, irraggiungibile significato. Pomodoro sviluppo questi principi su scala monumentale, fino a dare vita a veri e propri ambienti, come l’allestimento della Sala delle Armi al Museo Poldi Pezzoli o, su tutti, l’ipogeo Ingresso nel labirinto, pluridecennale work in progress in uno spazio di archeologia industriale in via Solari, a Milano, già sede della sua fondazione e ora dello Showroom Fendi.
In questo senso possono essere lette anche le numerose scenografie che Pomodoro ha realizzato in carriera, tanto per la prosa quanto per la lirica (tra l’altro più volte con l’amico Ermanno Olmi). «Mi è sempre interessato il teatro – diceva – perché questa scatola è uno spazio che consente una visionarietà unica. E soprattutto mi concede una libertà di fantasticare che la scultura non consente. La scenografia, a differenza della scultura, è un racconto. Non mi interessa il realismo. Le mie scene sono visioni che consentono una pluralità di suggestioni e letture». Non rado, questi lavori uscivano dalla scatola teatrale e si integravano con la scena urbana, come l’Oedipus Rex di Igor Stravinskij a Siena davanti all'ala incompiuta della cattedrale, o un allestimento entrato nella storia, come quello realizzato a Gibellina tra il 1983 e il 1985 per l'Orestea in siciliano di Emilio Isgrò, da Eschilo: «Quando ho visto quel luogo colpito dal sisma, dove tutto era rovina, ho capito che nessuna scena avrebbe mai funzionato, ma il paesaggio e le macerie stesse sarebbero state la sola possibile scenografia. Allora ho costruito quattro grandi macchine sceniche: le Forme del mito, che arrivavano portate come in processione e da cui uscivano i diversi personaggi. Le fogge erano simboliche del carattere di ognuno: la piramide per Agamennone era il potere, il tronco di cono per Clitemnestra l'ambizione. Per Villa Eumenidi, lo spettacolo che chiudeva la trilogia, ho invece realizzato un grande ventaglio di 7 metri di raggio i cui spicchi si aprivano a poco a poco finché appariva come un sole nel cielo».
Impossibile enumerare le mostre e le presenze nei principali musei e istituzioni di tutto il mondo, o i riconoscimenti (dalla Laurea in Lettere honoris causa dal Trinity College di Dublino al Praemium Imperiale di Tokyo) ricevuti nel corso di un carriera lunga 70 anni. L’11 ottobre 2012 in piazza San Pietro insieme a Ermanno Olmi e al compositore scozzese James MacMillan, a nome degli artisti aveva accolto dalle mani di Benedetto XVI i messaggi al Popolo di Dio in occasione dell’apertura dell’Anno della Fede. Pomodoro aveva avuto occasione di lavorare per luoghi di culto. Suo è l’altare – insospettabilmente semplice – del santuario di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, per il quale aveva realizzato anche una discussa croce, poi rimossa nel 2010. Alla fine degli anni Novanta era stato chiamato a realizzare il portale in bronzo della Porta dei Re nel duomo di Cefalù. Del progetto mai realizzato restano diversi bozzetti (uno dei quali presso i Musei Vaticani), sintesi di una ricerca artistica costantemente intenta a scavare una soglia.