giovedì 29 maggio 2014
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Dei suoi ottanta film, tra documentari e lungometraggi di finzione, non tutti hanno avuto il giusto spazio e il giusto peso. Come Ana Arabia, l’ultima opera di Amos Gitai, in concorso alla 70ª Mostra di Venezia, e distribuito in Italia grazie alla cooperativa Boudu, da oggi in trenta sale. Nato a Haifa, studente di architettura a Berkeley, Amos Gitai fu richiamato a ventitré anni in Israele come soldato durante la Guerra del Kippur. Sul fronte un missile fece precipitare il suo elicottero e uccise, decapitandolo, il suo compagno. Da quel giorno Gitai non ha smesso di raccontare, documentare, cercare, mostrare, senza eufemismi o retorica, la contraddizione della guerra e l’inutilità del potere. Lo abbiamo incontrato a Roma, mentre sta lavorando al missaggio di Tzili, il suo nuovo film tratto da un racconto di Aharon Appelfeld. Ana Arabia è un personaggio realmente esistito?«Il primo a raccontarmi di una donna, nata ad Auschwitz, sposata con un uomo musulmano, è stato il mio co-sceneggiatore. Aveva letto questa notizia su un giornale. Così abbiamo iniziato a lavorare su questa storia: l’unione e l’amore di una donna di origini ebree e di un uomo musulmano rappresentava un punto di vista importante che rimetteva in gioco il limite del pregiudizio e dava la possibilità di raccontare la convivenza tra persone diverse».Quando scrive e dirige un film sceglie sempre di narrarlo da una giusta distanza. Ci può raccontare come?«In Ana Arabia racconto le storie di una comunità di ebrei e musulmani attraverso gli occhi di una giovane giornalista con un unico piano sequenza. La ragazza vive a Tel Aviv, una città moderna piena di divertimenti, distante solo cinque minuti da questo villaggio. Le differenze tra la comunità e la ragazza di "città" rappresentavano un punto di vista necessario per raccontare i personaggi, il loro passato e questo tipo di tensione». Una tensione che nasce dalle differenze di religione, di dominio. «Israele vive quotidianamente queste differenze e occorre accettarle senza giudicare chi è nel giusto e chi è nel torto. Come papa Francesco che, durante il suo discorso meraviglioso al memoriale di Yad Vashem, ha iniziato partendo da alcune domande: "Uomo, chi sei? Non ti riconosco più. Chi sei diventato? Di quale orrore sei stato capace? Che cosa ti ha fatto cadere così in basso?". Attraverso queste domande il Papa ha richiamato l’uomo alla sua responsabilità, evitando di prendere le difese di una sola parte».Anche nel suo cinema il richiamo dell’uomo all’uomo è molto evidente. «In Ana Arabia ho voluto evidenziare che l’uomo non è un angelo. Quando l’uomo crede di esserlo dimentica il valore dell’altra persona e la sua religione diventa fanatismo. Per questo con il mio cinema voglio mostrare che nelle persone esiste la contraddizione, non la perfezione. Dall’accettazione dei nostri errori troveremo la via della riconciliazione». Nel film cita i Salmi: «L’amore è più forte della morte». Per lei l’amore è la chiave che apre la porta della pace?«Ne sono convinto. Le relazioni non sono sempre idilliache. Perché nascono dalle differenze. In Israele gli uomini e le donne, gli ebrei e i palestinesi fanno fatica a convivere con la loro storia, piena di ricordi amari. Dobbiamo estirpare però dal nostro sentire comune l’idea che Dio prende le difese degli esseri umani. Dio è al di sopra delle nostre meschinità. Non abbiamo bisogno di uccidere per far accettare le nostre idee». Qual è la sua opinione sulla situazione in Israele?«Ho scelto volutamente di non essere un politico perché credo che gli artisti abbiamo un vero potere, quello delle idee. Il potere della cultura e delle idee non sempre vince, ma non dobbiamo arrenderci».Ci può raccontare il suo nuovo progetto?«È un adattamento del romanzo Paesaggio con bambina di Aharon Appelfeld. Ha come protagonista una ragazza ritardata, lasciata sola a casa dai genitori in fuga per la guerra. Spero che il film possa essere pronto per il Festival di Venezia».
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