venerdì 18 novembre 2011
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Il “Garoto”, il ragazzo, se ne è andato in punta di piedi dall’Italia, come quando con gli scarpini accarezzava l’erba sempre verde del Comunale di Firenze. Amarildo Tavares da Silveira, stella luminosa del secondo scudetto della Fiorentina (stagione 1968-’69) se ne è andato da qui, tra l’indifferenza del popolo degli stadi, che ha la lingua lunga, ma la memoria sempre troppo corta.È tornato a casa, in Brasile dove si è appena ripreso da giorni tristi e solitari, in cui sdraiato su un letto d’ospedale a vegliarlo c’era il terrore che quelli fossero anche finali. «Ha cominciato a sputare sangue e alla fine la diagnosi è stata impietosa: cancro alla laringe», dice il figlio Rildo, fiorentino doc e poliglotta come suo padre («parliamo sette lingue a testa o giù di lì»), che ha accompagnato papà Amarildo nel suo viaggio di ritorno alle origini e ora lo sta curando nella graduale ripresa fisica. «Avevo perso 10 chili, ora piano piano con l’aiuto di Dio che non mi ha mai abbandonato un giorno in questi 72 anni, ne ho già recuperati quattro. E la voce che era andata via, senti come è squillante dopo l’operazione?...», dice al telefono da Rio un Amarildo rincuorato dopo l’ultimo ciclo di chemio, ma un po’ amareggiato dalle tante problematiche che affliggono il suo Paese. «In Brasile se stai male e non hai soldi sei un uomo finito. L’ospedale in cui sono stato operato e in cui ora vengo seguito, costa una fortuna. Se non fosse intervenuto il buon cuore del Botafogo che si è ricordato del suo ex ragazzo...».Quel garoto di Campos, «come il mio compagno di nazionale Didì», arrivato nel nostro campionato nel 1963 e che con la sua classe pura e un’innata allegria, dopo Firenze aveva ammaliato la Milano rossonera e infine la Roma di Helenio Herrera. Di lui si erano accorti tutti a Cile ’62, quando sostituì l’infortunato Pelè e trascinò il Brasile alla conquista del titolo mondiale. Ma da quel momento iniziò una “guerra” tra O Rey e Amarildo, culminata nel gran rifiuto di San Siro. «Nel maggio del ’63 con la Seleçao venimmo a disputare un’amichevole e quando nel secondo tempo il ct Moreira mi disse che dovevo scaldarmi per sostituire Pelè gli dissi di no, che non ci stavo a fare la sua riserva e che mi doveva far giocare prima. Ero un ragazzo, poi quando ho smesso di giocare con Pelè ci siamo riappacificati. Vale comunque quel che Romario ha detto un giorno di Pelé: se stesse zitto sarebbe il miglior poeta brasiliano. Più grande lui o Maradona? Io non ho dubbi: Garrincha». L’amico “Manè” al quale è stato sempre vicino, fino all’ultimo. «Hanno scritto che nessuno porta più un fiore sulla sua tomba, ma non è vero che il Brasile ha dimenticato Garrincha. I brasiliani si ricordano di tutti i loro campioni della Seleçao. Perfino i bambini mi fermano per la strada per chiedermi una foto ricordo o un autografo». In Italia invece il ricordo di Amarildo è confinato nelle menti dei vecchi tifosi del Barsport e una volta appesi gli scarpini si è dovuto accontentare di panchine di serie C (Sorso, Turris, Pontedera, Rondinella), per poi tentare la fortuna nei nuovi eldorado dell’Arabia Saudita e del Qatar. «Come allenatore non ho avuto fortuna, ma credo che in parte dipenda dal fatto di non aver mai voluto fare sconti a nessuno. Nel ’90 ero il vice di Lazaroni alla Fiorentina e Cecchi Gori mi cacciò perché io mi opposi a fare esordire in Serie A un tale Bartolelli che era il figlio di un suo intimo amico. Per me il calcio non funziona su raccomandazioni, se hai talento vai in campo altrimenti fai un altro mestiere». Firenze è nel suo cuore, «ho trovato anche moglie, Fiamma, stiamo insieme da 42 anni e prima di Rildo mi ha dato altre due figlie Jennifer e Katiuscia», ma è in Brasile che va alla ricerca di una nuova primavera. «Sono ambasciatore internazionale del Botafogo, ma vorrei tanto mettere la mia esperienza al servizio del calcio italiano. Solo qui a Rio ci sono decine di Neymar, ma tanti procuratori vengono e non vedono. Quando Hernanes era ancora al San Paolo mi ero permesso di segnalarlo in al Milan e alla Fiorentina, poi due anni dopo alla Lazio hanno capito che era un affare e l’hanno pagato 12 milioni di euro. Se mi avessero ascoltato prima avrebbero sicuramente risparmiato. Ma i presidenti dei club italiani pensano che più spendi, più sei bravo e vinci. Non hanno capito niente...». Il suo presente ora è solo il Brasile. «Questo è un Paese che potenzialmente è il migliore dei mondi possibili. È vero che economicamente è cresciuto moltissimo , ma io giro per le favelas e vedo ancora tanta povertà. E la piaga più grande è la mancanza d’istruzione dei nostri giovani. Abbiamo tanti grandi calciatori, ma anche troppi analfabeti e ancora pochissimi laureati. E senza la cultura il Brasile non potrà mai volare in alto». La speranza è rivolta ai prossimi Mondiali di calcio del 2014: «Spero tanto che sia un momento di grande riscatto sociale, ma anche sportivo. Il Brasile deve cancellare per sempre l’incubo della finale del ’50 persa al Maracanà contro l’Uruguay». Un’immagine calcisticamente “luttuosa”, che per un attimo rende triste Amarildo, ma poi si illumina subito di immensa allegria e ringrazia commosso: «Grazie a quegli amici dell’Italia che in questi giorni mi hanno chiamato per sapere come stavo. Io non ho mai dimenticato nessuno, tutti i miei compagni di squadra li porto sempre nel mio cuore. Ho due sogni per il futuro: tornare a lavorare per i club italiani, ma prima di tutto, fare una passeggiata mano nella mano con mia moglie Fiamma per le strade di Firenze come quando eravamo giovani. Ci penso tutti i giorni...».
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