mercoledì 14 dicembre 2016
A un quarto di secolo dalla morte, avvenuta il 16 dicembre 1991, lo scrittore di culto della generazione degli anni 80 ne appare come la voce critica più lucida
Pier Vittorio Tondelli

Pier Vittorio Tondelli

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Solo la distanza riesce a contrastare gli eccessi. Succede con gli scrittori, soprattutto quando vengono indicati come “miti” generazionali ed è proprio quest’ottica a falsarne una lucidità di giudizio, in quanto crea sovrastrutture troppo legate al contesto, oltre a un’immagine enfatizzata. È successo per Pier Vittorio Tondelli, lo scrittore emiliano, protagonista della giovane e nuova narrativa degli anni Ottanta, prematuramente scomparso a soli trentasei anni, venticinque annni fa, nel dicembre 1991, lasciando come ultimo libro, una sorta di “romanzo critico”, Un weekend postmoderno, che istituiva anche a livello letterario, il suo legame stretto con il decennio che lo aveva visto protagonista, gli anni Ottanta, e lo poneva in un ruolo di riferimento generazionale, proprio perché gli anni Settanta e gli anni Ottanta, nelle scelte di impegno politico prima e di disillusione ideologica poi, avevano avuto bisogno di definire il “nuovo” attraverso la “generazione” che cambia e che, al suo interno, cerca una definizione diversa rispetto al passato.

La forza di Tondelli è stata quella di essersi posto nell’ottica dell’osservatore curioso e attento di tutte quelle tendenze che allora caratterizzavano la “nuova” realtà giovanile e che creavano un paesaggio diverso anche per la letteratura, in quanto cambiavano i punti di riferimento della società, con l’imporsi della musica e del rock come realtà vissute in forma collettiva, attraverso la nascita delle radio libere, i concerti, il fenomeno aggregante e disgregante al contempo delle discoteche, ma anche di una creatività diversa che iniziava a porre le basi di quella che sarebbe esplosa come rivoluzione informatica, allora agli albori, con i primi videogame, l’utilizzo dell’elettronica e della computer art nei primi video musicali. Era una scena, quella degli anni Ottanta, che vedeva su un palcoscenico immaginario, dislocato in varie zone d’Italia, i “nuovi” creativi che volevano innovare i linguaggi, dal teatro alla musica fino al fumetto, non più considerato come genere di consumo popolare, ma utilizzato come forma d’arte applicata (si vedano, su tutti, gli esempi di Pazienza e di Mattotti).

Tondelli lavorava guardando a quel contesto, osservandone gli scenari, raccontando una realtà in movimento, utilizzando uno sguardo duplice che era quello dell’osservatore esterno ma anche quello di un soggetto attivo su quella scena e su quei sipari, scena e sipari che non potevano corrispondere, sempre, ai bisogni interiori, alla verità della persona, perché troppo riferiti all’esterno e all’esteriore come imponeva l’estetica degli anni Ottanta.Così Tondelli diventa l’interprete di quegli anni perché li sa raccontare nei loro multiformi aspetti, ma non ne accetta totalmente il valore intrinseco e dietro la maschera apparente mette in evidenza le minacce, le crepe, il senso di precarietà che accompagna quella stagione. Molti sono gli esempi che si possono citare, dal fatto che indichi già la disillusione e la fine tragica di un periodo piuttosto breve, il tempo e la stagione euforica di “un weekend postmoderno” appunto, con l’assassinio a Bologna, nel 1983, della critica d’arte Francesca Alinovi fino alla chiusura di un romanzo come Rimini, in cui racconta la riviera romagnola come lo specchio della realtà nazional-popolare di allora, nel segno di un’Apocalisse distruttiva. Quando dirige una collana per Mondadori, “Mouse to mouse”, di storie, tra narrativa e realtà, sceglie come primo titolo Fotomodella, scritto da una protagonista della passerella, in cui quei primi anni d’oro della moda, Elisabetta Valentini, mostrano un volto meno scintillante di quello che poteva apparire all’esterno. Diventa infine esplicito quando ricorda, nel 1988, dopo la morte, l’amico Andrea Pazienza, che aveva frequentato nella Bologna dei primi anni Ottanta. Scrive: «È questo che la morte di Andrea mi mette davanti, spietatamente: il lato negativo di una cultura e di una generazione che non ha mai, realmente, creduto a niente, se non nella propria dannazione… Molti altri, vittime e interpreti di quegli anni, sono scomparsi. C’era qualcosa che non andava allora, ed era il mito dell’autodistruzione. Qualcuno ne è saltato fuori, qualcun altro no e ha pagato carissimo».

Tondelli è stato interprete di un decennio, ma in forma critica, anche morale, grazie alla sincerità e al bisogno che aveva di guardare dentro di sé, alla propria umanità. Per tutti gli anni Novanta però, all’indomani della sua morte, c’è stato un fraintendimento che lo ha reso prigioniero della sua “generazione”, investendo la sua figura di quella mitologia esteriore e semplicisticamente votata all’edonismo. Ben più complessa e singolare appare invece la sua posizione, rispetto alla vulgata conformista cui hanno voluto appellarsi molti nuovi scrittori degli anni Novanta (la maggior parte dei quali sembra definitivamente scomparsa, senza lasciare tracce memorabili del proprio passaggio), usando certi tic e certe manie della scrittura tondelliana, per comporre romanzetti post-adolescenziali, tra sbavature romantiche, piagnistei e conformismi provinciali.Il tempo e lo studio critico hanno liberato Tondelli dalla mitomania post-mortem per restituirlo a una libera interpretazione, finalmente “fuori moda” ma più profonda, che ha potuto mettere in luce letture diverse non univoche, stratificate, tese a cogliere gli aspetti preminenti della sua opera.

Si ricordano quelle sul “ritorno a casa” di Elena Buia e quelle, fondamentali e ampie, sul tema dell’attesa e dell’ansia religiosa di padre Antonio Spadaro fino al lavoro dei giovani universitari, che continuano a occuparsi della sua opera, tra cui segnaliamo lo studio incrociato della lezione del critico d’arte Francesco Arcangeli sul “tramando emiliano” nel percorso di Tondelli, proposto da Luigi Levrini, nonché le ricerche sul tema dell’angelo illustrate nel recente Seminario tondelliano, svoltosi a Correggio, da Giacomo Giuntoli.

Così si spiega come sia proprio l’ultimo romanzo di Tondelli, Camere separate, uscito nel 1989 (ora riproposto da Bompiani nella collana dei Classici contemporanei) a essere tra i più amati dai lettori, diventando un long-seller: è il suo testo meno generazionale, quello in cui si mette a nudo, con estrema sincerità, in cui affronta un viaggio in cui “la conquista della solitudine” diventa un valore e una possibilità per riprendere il tempo di un’intimità con se stesso e con il valore della propria vita. È un libro in cui Tondelli attraversa, a vari livelli il tempo del lutto e della morte e rilegge in questa chiave di moralità della scrittura, il tempo che ha vissuto e che ha raccontato, visto che lo stesso scrittore aveva affermato con forza, all’uscita del libro, non solo il suo carattere di intimità, ma soprattutto la necessità di riconvertire a specchio il suo sguardo: «Negli altri miei libri credo di essere rimasto un po’ sulla superficie, di aver volutamente raccontato la superficie delle cose. Preferivo la descrizione di certi ambienti, di certa fauna, di certe città, mentre in Camere separate volevo cercare le ragioni più profonde del mio modo di scrivere, del mio modo di vivere». Così quelli che che erano parsi degli allarmi, le ferite di un tempo che nascondeva la sua tragicità, in questo ultimo romanzo diventano sfide non solo con se stesso, con anche con la generazionilità che ha descritto, visto che non lo intuiva come un libro di svolta, ma come «un libro un po’ segreto, la voce segreta degli altri tre romanzi, o quantomeno la sua voce nascosta». L’imperfezione di Camere separate diventa il suo vanto: riporta a un’autenticità che gli permette di dare una risposta chiara e decisa, maturata già fin dalla metà degli anni Ottanta in un «nuovo paesaggio dell’anima», rispetto allo smarrimento generazionale. Del resto Tondelli aveva detto chiaramente che «il lutto del protagonista può essere inteso in senso più generale come il lutto di una generazione un po’ smarrita tra la voglia di buttarsi nel carrierismo, nel rampantismo e quella di guardarsi un po’ dentro per capire bene chi si è, qual è la propria verità, qual è la propria storia».

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