Vivere nella civiltà (e nella dittatura) delle emozioni

Un saggio di Eva Illouz mostra come la speranza rappresenti una via di fuga dalla depressione spirituale che affligge la società contemporanea
November 6, 2025
Vivere nella civiltà (e nella dittatura) delle emozioni
/ UNSPLASH
Philip Dick ambienta uno dei suoi romanzi, Gli androidi sognano pecore elettriche?, pubblicato nel 1968, in una San Francisco post-apocalittica. In questa distopia, come fanno gli esseri umani a distinguersi dagli androidi? Tramite un test di empatia, a rimarcare che sono le emozioni a costituire il tratto distintivo dell’umanità. La citazione è contenuta, assieme a numerosi altri riferimenti letterari, nel volume Modernità esplosiva. Il disagio della civiltà delle emozioni di Eva Illouz (Einaudi, pagine 358, euro 20), un saggio davvero illuminante per comprendere il disorientamento generale, l’ansia collettiva se non l’angoscia esistenziale che caratterizza donne e uomini del nostro tempo. Spaziando da Freud a Bauman, alle cui opere rimandano esplicitamente titolo e sottotitolo, l’autrice, che è direttrice didattica all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, precisa sin dalla premessa che il suo “è un tentativo di comprendere l’attuale malessere mettendo da parte le grandi narrazioni psicologiche e prendendo molto più sul serio ciò a cui Freud non era interessato: la politica, l’economia e l’ideologia”. In realtà, Illouz, che si riferisce concretamente al peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte dell’umanità, dall’aumento delle disuguaglianze alla perdita di fiducia nelle istituzioni democratiche, dalla precarietà del lavoro e dei matrimoni alla pervasività della tecnologia, è ben cosciente che il turbamento derivante da queste situazioni genera un malessere profondo a livello sia individuale che collettivo. Perciò fa proprio il discorso di Freud ma intende andare oltre impostando la sua ricerca sulla sociologia delle emozioni più che sulla psicologia. A suo dire “la modernità (grosso modo il periodo che va dall’Illuminismo alla Seconda guerra mondiale) è stata fondamentalmente basata sulla speranza, ma la tarda modernità – l’epoca che si è aperta dopo la rivoluzione culturale degli anni Settanta e l’attuazione di politiche neoliberali in tutto il mondo – ha messo in moto un’ampia gamma di meccanismi istituzionali ed emozionali che hanno distrutto la speranza in quanto fondamento del soggetto moderno, spingendo la disillusione a trasformarsi in invidia, ira, paura, vergogna o nostalgia”.
Ed è singolare, nonché apprezzabile dal mio punto di vista, che l’analisi delle emozioni – le quali spesso coincidono con i vizi capitali così ben evidenziati nei secoli passati dai Padri della Chiesa e da quelli del deserto in primis – compiuta da Eva Illouz inizi proprio dalla speranza e finisca con l’amore. Emozioni, se così si possono chiamare, viste con disillusione e tenendo conto della loro ambivalenza certamente, ma singolarmente suggerite anche come via d’uscita dal torpore e dal pessimismo cosmico che ci affligge. La speranza è quella di san Paolo e di Charles Péguy, opportunamente richiamati, come sentimento chiave per tutte le religioni della salvezza e del cristianesimo in particolare. Quella speranza che per il poeta francese ha un potere miracoloso per l’uomo che vi si affida e davanti al quale persino Dio deve inchinarsi. Quella speranza che per l’apostolo è fede contro ogni evidenza e che Emily Dickinson canta come una melodia dell’anima che pure nei giorni più bui ci fa sentire che c’è ancora una possibilità. Ancora, quella speranza declamata da Ernst Bloch come principio vitale. Citando teologi, scrittori e filosofi, Illouz cerca di delineare strade possibili dopo il fallimento del progetto moderno che faceva coincidere la speranza con il progresso: rivolgendosi alla storia più o meno recente, ricorda l’idea di Europa unita dopo il secondo conflitto mondiale ben rappresentata dal sogno di Robert Schuman, poi porta l’esempio di Solidarnosc, del filosofo Leszek Kolakowski, che con la sua critica del comunismo ispirò il sindacato libero che fece crollare le barriere in Polonia, e del drammaturgo cecoslovacco Vaclav Havel. La speranza dei “senza potere” capaci di disintegrare un regime famigerato e oppressivo. Esempi cui ancora rivolgersi che testimoniano come “la speranza sia una risorsa sociale fondamentale”.
Il saggio approfondisce poi emozioni come l’invidia, l’ira, la paura e la nostalgia, sempre riflettendo sulla loro ambivalenza ma rimarcando soprattutto come determinino e condizionino le donne e gli uomini di oggi, e come siano anzi in grado di ispirare la politica e l’economia. Nel suo Età della rabbia l’intellettuale l'indiano Pankaj Mishra ha illustrato come la rabbia possa diventare un esercizio di democrazia ma anche un sentimento che dà voce a revanscismi, populismi e nazionalismi. Con leader politici che fanno leva sulla paura per creare consenso e mobilitare le masse. Parlando poi dell’amore, l’autrice va da Platone a Bauman, che a questo sentimento ha applicato l’epiteto di “liquido” come aveva fatto con la modernità. L’invito che ci rivolge Illouz è di comprendere le nostre emozioni, senza rinchiudersi in una fortezza orgogliosa ed egoistica, col rischio poi di farsi prendere dalla depressione spirituale. Quell’accidia, qui purtroppo non esplorata, che i monaci cristiani hanno conosciuto bene e sperimentato, assai prima di Freud.

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