Sud, giallo e magia: la terra dei misteri nel nuovo romanzo di Zaccuri
“Le ombre” è un thriller psicologico capace di rendere umano un ambiente difficile, dove domina la violenza e dilagano superstizione e pregiudizi

Le ombre che danno il titolo al nuovo romanzo di Alessandro Zaccuri - Le ombre (Marsilio, pagine 160, euro 16,00): da oggi in libreria, sarà presentato il 19 settembre a Pordenonelegge - sono quelle che a un certo punto della storia percepisce, tra realtà e sogno, Salvo. Non ancora trentenne, l’uomo si trova, per così dire, ospite di Santabella, una singolare guaritrice, depositaria degli atavici segreti di un unguento considerato miracoloso per sanare le ustioni della pelle, anche le più devastanti. Salvo è stato portato in questo casolare sperduto nella campagna siciliana (di Sicilia si parla esplicitamente in una pagina del romanzo, tipicamente siciliani sono i nomi di alcuni personaggi, anche se la dinamica dei fatti potrebbe spingere a ipotizzare che siamo in un’altra regione del Sud Italia, come la Calabria) per essere affidato alle cure della fattucchiera, con la quale convivono, quali suoi aiutanti, un uomo maturo, Cesare, e una ragazza poco più che adolescente, Bettina. A Salvo è stato detto che si è trattato di un terribile incidente, ma lui ha un ricordo completamente diverso, quello di un agguato in cui è stato colpito dall’esplosione di una bomba molotov. Salvo viaggiava sul carro funebre che portava la salma del padre, don Ciccio, dal Comasco, dove gran parte dei suoi parenti si trovavano in soggiorno obbligato in quanto appartenenti alla criminalità organizzata, al paese d’origine per le esequie e la sepoltura. Insieme a lui c’era l’impresario delle pompe funebri, Vincenzino, un amico di famiglia. Salvo ricorda che a un certo momento, poco dopo una strettissima curva, si erano trovati di traverso sulla strada un’automobile impolverata dalla quale erano sbucati due aggressori. Poi non ricorda più nulla. Se non il fatto di essersi trovato su un’ambulanza con l’ago di una flebo infilato in un braccio e Agata a rassicurarlo.
Agata è una donna del suo paese d’origine: quarantenne, maestra elementare, molti anni prima avrebbe dovuto sposare Sabatino, ma qualcuno gliel’aveva ammazzato. Da quel giorno aveva portato il lutto con grande dignità, assistendo per anni la madre malata del suo promesso sposo, fino alla morte dell’anziana donna. Donna di portamento regale, vestita tutta di nero, era stata soprannominata dall’organista della chiesa grande del paese «la Maria Stuarda». Un nomignolo che sottintendeva una canzonatura, dalla quale però lei sapeva difendersi bene quando proveniva da qualche ragazzino impertinente: «Ogni tanto, al passaggio della maestra, ce n’era uno più sfrontato degli altri che si inchinava davanti a quel nero sfolgorante e imitava la tromba con la bocca, quasi a intimare di fare largo, passa sua maestà. “Tu devi stare attento” lo ammoniva allora Agata, “perché re e regine non ci stanno più, ma ai banditi la testa gliela staccano ancora”».
Quando si era capito che a don Ciccio, dimesso dall’ospedale dopo essere stato colpito da un infarto, non restava molto da vivere, i suoi quattro figli avevano deciso di far salire al Nord proprio Agata, visto che con la madre di Sabatino aveva dato prova di tanta abnegazione. La decisione era stata presa apparentemente da Salvo, perché, tra i quattro figli, era lui che il padre aveva da tempo designato come il proprio successore alla guida del clan mafioso. Anche se Salvo era il più giovane. Ma aveva dalla sua una certa vivacità intellettuale (seppure basata su una cultura piuttosto superficiale), tanto che in famiglia lo avevano soprannominato «il professore».
Il soggiorno forzato di Salvo presso Santabella è caratterizzato dalle ombre. Quelle che si affollano nella sua mente quando pensa alla vera dinamica dei fatti: l’agguato che lui ricorda c’è stato davvero? oppure si tratta di un falso ricordo, frutto dell’alterazione della sua mente? Le ombre di sconosciuti che sente parlottare fuori dalla casa, ma la cui presenza viene negata dalla guaritrice. Quelle disegnate nella stanza dalla luce fioca che filtra dalle imposte, chiuse dall’esterno affinché lui non possa scappare. Ma allora è un prigioniero? Santabella vuole davvero il suo bene? Sta cercando di guarirlo? O magari di avvelenarlo? Che donna è Santabella? Buona (come in qualche modo dice il nome con il quale è conosciuta e come lei si dichiara a parole) o cattiva? A guardare la durezza, che talora sembra sconfinare in vero e proprio sadismo, con cui tratta i suoi due sottoposti e in qualche momento, con battute sarcastiche, anche Salvo stesso, si sarebbe portati a propendere per la seconda ipotesi.
Nel suo letto di dolore, fasciato dalle bende rimosse soltanto per le unzioni quotidiane accompagnate dal salmodiare della guaritrice, impossibilitato a muoversi e persino a guardarsi in uno specchio, Salvo si ritrova isolato dal mondo. Lui che era pronto a prendere lo scettro del comando, ora è in balìa di una donna che non sa veramente chi sia. Ma a un certo punto dall’ombra emerge una luce: Agata, che comincia a fargli visita e gli propone, finché non si sarà del tutto ristabilito, di aiutarlo a trasmettere i suoi ordini all’esterno. Nei confronti di Agata, Salvo prova un’attrazione di tipo insieme affettivo e sensuale, che lei, con la sua calda empatia, sembra a tratti ricambiare. Ma qualcosa continua a non quadrare: perché lo tengono lontano da tutto? Perché non gli danno un telefono o almeno i giornali che ha richiesto tante volte con insistenza per potersi informare di quanto accade?
Sono domande che, insieme a Salvo, si fa anche il lettore. E in ciò risiede la prima qualità del romanzo di Zaccuri, vale a dire la tensione che sale nel corso della narrazione. La suspense si accresce grazie all’ambiguità dei personaggi e delle loro azioni. Salvo, e chi legge con lui, può davvero fidarsi di chi dice di volergli bene? I particolari che non tornano si affastellano lungo lo svolgimento della trama, generando un senso di inquietudine.
Il secondo pregio del libro è la capacità di rendere un ambiente umano - quello di una malavita meridionale in cui i rapporti sono pervasi da una violenza sistemica e le persone sono legate ad antiche abitudini e superstizioni - con uno stile che consente al lettore di entrare in quel mondo. Memore della lezione verghiana, l’autore opta spesso per la soluzione del “narratore popolare”: una voce narrante, cioè, che assume punti di vista, pensieri, pregiudizi, modi di dire tipici dell’ambiente sociale a cui appartengono i personaggi. Per esempio: «Agata nessuno l’aveva vista piangere. Bella era quando Sabatino la portava alle feste e gli occhi dei maschi le si attaccavano addosso; bella era rimasta dal giorno dello scempio. Aveva deciso di vestire per sempre il lutto e su di lei quei panni neri sembravano l’abito di una regina». Oppure: «Il televisore era rimasto acceso, ma basso basso, con il telegiornale che come sempre spargeva menzogne per inguaiare le persone perbene». O ancora: « Avrebbero potuto cercare una donna del posto, una di quelle polentone con gli occhi slavati in mezzo alle quali erano costretti a vivere. Ma era gente su cui non si poteva fare affidamento: non conoscevano l’onore, non avevano mai voluto ammettere che grand’uomo fosse Don Ciccio. Lo chiamavano “il mafioso”, figurarsi. Che ne sapevano loro? Cresciuti sotto il sole pallido del confine, nemmeno si immaginavano che cosa significasse nascere in una terra spaccata dalla siccità e dal vento, dove ogni raccolto te lo devi conquistare con il sudore della fronte e le novene a San Michele. No, da una donna così il padre non lo avrebbero fatto curare».
Ciò non significa, naturalmente, che la distanza tra il punto di vista del narratore e quello dell’autore sia del tutto azzerata. Quest’ultimo, infatti, si manifesta attraverso il meccanismo dello straniamento: la voce narrante presenta come normali e accettabili comportamenti e modi di pensare che non lo sono affatto. In tal senso Le ombre è un romanzo sociale, ma è anche, come abbiamo accennato, un thriller psicologico. Per questo sarebbe imperdonabile se raccontassimo la trama più di quanto abbiamo fatto sin qui. Tuttavia il verso dell’Adelchi manzoniano posto in epigrafe all’opera - «Godi che re non sei» - suggerisce dall’inizio che i sogni di grandezza di Salvo sono destinati a essere frustrati.
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