Siria, la speranza «combattente» di padre Dall'Oglio
A quasi quattro anni dal rapimento, un libro appena uscito ripercorre l’impegno sul campo del gesuita romano: «La profezia messa a tacere». Padre Lombardi: «Cosa avrebbe fatto in questo tempo?

Da tre anni e mezzo non abbiamo più notizie di Paolo e la Siria continua a morire. Cos’avrebbe fatto Paolo in questo tempo se avesse potuto continuare a muoversi e a parlare? Cos’avrebbe fatto o detto di più per il popolo siriano di quanto aveva già fatto e detto fino a quel fatidico 29 luglio 2013? In una delle testimonianze di questo libro si osserva che quei giorni a Raqqa erano il momento peggiore per arrivarci, perché l’Isis stava prendendo il controllo ed eliminando gli oppositori, e «proprio perché il momento e il luogo erano pessimi, non era strano che ci fosse padre Paolo». [...]
Sono pur sempre le sue parole, soprattutto le ultime a toccarci con quella forza e quella passione che ha segnato e continuerà a segnare ogni nostro incontro con lui. Quando ci parla della speranza che lo animava: «La speranza è dell’ordine del combattimento, non delle previsioni» (luglio 2013). Quando ci parla della morte del padre Murad: «Il suo martirio è gloria per la Chiesa e pessima notizia per la rivoluzione siriana... La lotta è impari...» (ultima lettera, metà luglio 2013). [...] In questi anni cruciali della storia del mondo, quando i popoli occidentali non capiscono e non sanno che cosa significa la venuta tra loro di altre genti e in particolare di innumerevoli musulmani, si chiudono e si spaventano; quando i musulmani faticano a fare i conti con le sfide della modernità e si combattono crudelmente uccidendosi tra loro nelle loro stesse terre con la complicità odiosa di grandi poteri e grandi potenze, e scorrono fiumi di sangue... In questi anni in cui papa Francesco ci parla con lungimiranza di una «guerra mondiale a pezzi», Paolo ci invita a riaprire le pagine antiche del libro della Genesi e rileggere la storia di Abramo, per ascoltare il grido della sete di Ismaele, il pianto di sua madre Agar – la ripudiata, la madre dei musulmani – e vedere anche noi la fonte dell’acqua che le viene indicata da Dio nel deserto. Intitolando “La sete di Ismaele” la sua rubrica regolare sul dialogo islamocristiano, e ricordando il grido di Gesù in croce: «Ho sete!», Paolo ci invita a «riconoscere il valore cristologico ed ecclesiologico del grido degli esclusi: un grido qualche volta scomposto o addirittura terrificante, ma un grido che la Chiesa non può non riconoscere come pertinente la storia della salvezza». Riusciremo a risalire così indietro verso le origini e a scendere così in profondità? Riusciremo a riconoscere le divisioni antiche per poterle risanare, a intuire e far nostro il desiderio di pace universale del Padre creatore di tutti e del suo Figlio che muore per riconciliare tutti i suoi figli? Ma se non ci proviamo neppure come potremo sperare di trovare luoghi spirituali solidi e veri di incontro e dialogo tra le culture e le loro dimensioni religiose, come potremo sperare di sfuggire alle tentazioni e agli inganni continui delle divisioni e dell’odio omicida? «Ponti e non muri», dice Francesco e prega con gli occhi chiusi e il capo poggiato in silenzio sul muro che attraversa Betlemme, aspettando, sognando e sperando un mondo fraterno senza muri.

Deir Mar Musa, sulla riva del deserto, rinato dal cuore di Paolo, è un ponte. La sua piccola e fragile comunità, che ho potuto accompagnare qualche mese fa da papa Francesco, continua la sua esistenza di testimonianza con la forza della speranza e della fede. La piccola icona che ha donato a Francesco – Mosè davanti al roveto ardente – è appesa nella sua stanza, sempre davanti ai suoi occhi, nel cuore della Chiesa universale. Mosè incontra il mistero di Dio: il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe (non possiamo aggiungere anche: il Dio di Ismaele, che ne ha dissetato la sete?) chiama e manda il suo profeta per liberare il suo popolo, nel quale devono essere benedette tutte le genti della Terra.
Il suo popolo è in ogni angolo del mondo, ma Paolo, concretamente, lo incontra nel popolo della Siria che aspira a crescere nella libertà. Nella sua lettera alla vigilia del diaconato Paolo scriveva: «Il dialogo è anche il mio impegno “politico” perché porta alla pace e alla giustizia, ma allora è evidente che non deve essere un dialogo di chiacchiere ma di segni e fatti concreti. La mia esperienza mediorientale mi insegna che tutti i livelli dell’esistenza sono coinvolti nel conflitto dalla religione fino all’economia ed il dialogo si deve fare a tutti i livelli nella loro interdipendenza. Concludendo, è questo servizio [diaconia] del dialogo per la pace con Dio e tra noi che vorrei fosse il senso di questa mia ordinazione diaconale; servizio sempre necessario, e parte già di quell’azione sacerdotale che è la celebrazione del mistero di Gesù nostra pace».
I segni e fatti concreti per un uomo dedicato e coraggioso come Paolo arrivano fino a mettere in gioco la vita. I figli del suo popolo gliene sono grati. In queste pagine arriviamo a leggere: «Padre Paolo è il simbolo della nostra speranza nella pace, una forza di ispirazione alla quale rivolgerci nelle ore difficili. Spesso mi sono chiesto: “Cosa farebbe Paolo al mio posto?”. Oggi so solo che lo aspettiamo, attendendo di avere risposte ai nostri dubbi e consapevoli che Dall’Oglio è la Siria e noi siamo figli suoi».
Grazie, Paolo, per le strade che hai aperto, i ponti che hai costruito, le speranze che hai fatto germogliare e continui ad alimentare. Tutti crediamo che l’incontro con te – quando? dove? come? lo sa Dio – sia davanti a noi.
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