Quelle intuizioni di padre Gemelli sulla sicurezza aerea (dopo Superga)
Nel 1949 il francescano fondatore della Cattolica scrisse su "Vita e Pensiero" un articolo sugli incidenti aerei. Da psicologo e cappellano aveva fatto esperienza con i piloti nella Grande G

Tecnologia, progresso e “fattore umano” al centro della riflessione di padre Agostino Gemelli su “Vita e Pensiero” del giugno 1949, a più di un mese dal disastro avvenuto nel cielo di Torino «nel quale – scrive il frate - un aeroplano da trasporto, apparentemente a causa della nebbia andò a sfracellarsi contro gli edifici della Basilica di Superga», destando «viva ripercussione in tutta Italia, per il fatto che le vittime appartenevano quasi tutte alla squadra di calcio». La tragedia accadde alle 17:03 e il Fiat G.212 della compagnia aerea Ali aveva a bordo i giocatori granata, colonna portante della nazionale azzurra. Un dramma impossibile da dimenticare fino ai nostri giorni nell’era del web 4.0, dei social network e dell’intelligenza artificiale.
Nell’articolo dal titolo “Si possono impedire gli infortuni aeronautici?” il fondatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ripercorre la sua esperienza di psicologo e di aviatore con un approccio scientifico, ma anche da uomo di fede. Già dal 1915, durante la Grande Guerra, su incarico del comando supremo italiano, Gemelli, medico e cappellano militare, si era occupato di problemi fisiologici e psicologici che riguardavano non solo la vita del pilota, ma anche l’esecuzione del suo compito. Per questo può essere considerato il padre della medicina aeronautica: «Gli incidenti di aeroplano sono oggi notevolmente diminuiti di numero – scriveva Gemelli nel 1949 –; le statistiche ci danno la percentuale indicando le cause e, se si confronta il numero di chilometri di volo e il numero dei passeggeri con il numero di incidenti si constata che essi sono divenuti rarissimi. Quando gli aeroplani di linea avranno raggiunto la frequenza delle autovetture, degli autopulmann e dei treni, si riscontrerà che è più sicuro viaggiare in aereo che per terra».
Non era solo fiducia verso il progresso dell’aviazione commerciale e, più in generale, nell’uomo e nelle sue capacità ingegneristiche e tecniche. L’analisi di Gemelli sull’incidente di Superga restituisce l’originalità del suo pensiero: nel cercare statisticamente di classificare «le cause di infortunio» legate alla «natura dell’incidente», il francescano poneva al centro il concetto di «infrastruttura», una denominazione di origine francese «per indicare l’organizzazione a terra, ossia tutto quel complesso di servizi mediante i quali un aeroplano dal momento in cui si innalza nel cielo sino al momento in cui ha terminato di atterrare è continuamente assistito». Essa «comprende un’infinità di servizi di natura molto delicata – sottolineava il frate –. Oggi i voli sono da un punto all’altro di un continente; tra continenti diversi; notturni; e non sempre con tempo ottimo e con piena visibilità». Incognite a cui Gemelli legava anche la variabile meteorologica «letta» dal pilota attraverso il bollettino «prima di decollare». Alla tecnica e all’ingegneristica Gemelli affiancava «il fattore umano» ovvero l’insieme di tutte quelle capacità psico-fisiche che si uniscono ai talenti e alle virtù da ricondurre all’esperienza che, nel caso del pilota, è data da «ciò che lo attende nel valicare una catena di monti»; alla «conoscenza di un’infinità di dati: la velocità del vento, a terra, alle varie quote; qual è la visibilità; come sono le formazioni di nubi, banchi di nebbia, il cammino che fa un temporale eccetera». L’infrastruttura, invece, deve provvedere ad altri servizi: i rifornimenti, la presa in cura dei viaggiatori, i bagagli, la difesa igienica per «impedire l’entrata in un Paese di malati sospetti». Inoltre «l’infrastruttura garantisce che l’aeroplano parta in perfetto ordine e con tutti gli strumenti di bordo funzionanti».
L’uomo, la macchina e la tecnologia sono gli elementi su cui padre Gemelli focalizza la sua analisi ponendo l’accento anche sugli strumenti: «È il complesso dei dati forniti da questi strumenti che rende sicuro il volo, tanto sicuro che non c’è bisogno di vedere né la strada che si percorre, né la meta; ossia il volo strumentale è necessario quando c’è la nebbia, quando è notte». Insomma in caso di «volo cieco». Un’analisi che richiama l’affidarsi dell’uomo a una tecnologia sempre più evoluta, non solo in campo aeronautico: «Io ricordo il mio primo volo con un aeroplanino le cui ruote erano fornite da gomme di bicicletta ed io ero issato su un sediolino, tra i fili tesi tra le ali e che il vento faceva cantare – scrive Gemelli –. Dietro le mie spalle era il motore; se si capottava veniva in testa. A ricordare quel glorioso e vecchio Farman, un esemplare del quale ho riveduto non molto tempo fa in un museo, mi viene il brivido. Non dico che fossimo coraggiosi, ma certo non viaggiavamo comodi e un nonnulla metteva la vita a repentaglio. Benedetta la giovinezza che permette di osare senza troppi se e troppi ma».
L’esperienza di Gemelli rileva quanto possa essere determinante il rapporto uomo-macchina. Un nodo che sarebbe diventato cruciale nel dibattito, spesso irrisolto e ancora in atto, tra la visione umanocentrica e quella tecnocentrica che a partire dal 1950 e dalla riflessione di Alan Turing sulle “macchine calcolatrici” e l’intelligenza umana ha coinvolto non pochi scienziati. Dal primo volo dei fratelli Wright del 1903 il mondo aveva aperto gli occhi alle grandi potenzialità di cui era capace l’uomo nel campo dei trasporti e delle telecomunicazioni. L’affinamento delle infrastrutture unite alle abilità del pilota avrebbero aperto orizzonti di sviluppo e l’industria aeronautica era il simbolo di questa proiezione verso il futuro. «Per dire tutto – commentava Gemelli sulle colonne della rivista – ci vorrebbe un volume», ma il religioso proseguiva nel suo ragionamento: «Il pilota ha dinanzi a sé fili, manette, e quadranti a non finire; quando si reca a bordo, prova i vari strumenti; verifica che tutto sia in ordine; ma chi ha curato il perfetto funzionamento di strumenti così delicati? E la radiotrasmittente? E la ricevente? E il radiogoniometro? L’infrastruttura vigila con mille occhi e con molte mani e lo fa giorno e notte, con pazienza, con cura ed esattezza. A sua volta – proseguiva Gemelli – il pilota deve avere un patrimonio di nozioni scientifiche e tecniche non indifferente». Un passaggio da cui trarre molteplici insegnamenti, a partire dalla centralità della persona soprattutto nell’evoluzione del progresso e della tecnica.
Nel suo articolo Gemelli fa considerazioni tecniche e richiama a diversi fattori circa l’incidente di Superga, ma emerge tra le righe qualcosa di più: «Il Servo di Dio, Vico Necchi, che era un mirabile nella fiducia nella Provvidenza, soleva dire: noi non vediamo un palmo più in là del nostro naso e vorremmo impancarci a formulare giudizi sull’avvenire, mentre è più logico attendere che Iddio governi le cose umane – sottolinea Gemelli –. E per persuadere che questo non è un ragionare fuori dell’ordinario, basta pensare che anche l’orologio più perfetto può guastarsi. E questo dell’aviazione è un orologio, perfettissimo, completissimo, ma delicatissimo. Aeroplani solcano i cieli: varcano gli oceani; compiono il periplo del mondo; viaggiano con velocità sempre maggiori: tutto ha la perfezione propria delle opere umane. Un nonnulla basta a guastare questo meraviglioso orologio e a mostrare che manca sempre qualcosa alla perfezione umana. Gli sciocchi ed i giornali dicono: il destino ha voluto così – conclude Gemelli –. Noi diciamo: il Signore ha permesso il confluire di circostanze varie, il sommarsi di cause piccole». Per Gemelli, la vita umana è così: «Affidata molte volte alle piccole circostanze; una mano che sembra misteriosa la guida per vie che sembrano alla corta vista nostra, misteriose; tutte le previdenze, tutte le precauzioni, tutto lo zelo è stato inutile; un nonnulla distrugge l’opera paziente ed intelligente di molti e porta la sventura. Ed è Dio che permette, forse, per insegnarci che nella tecnica abbiamo toccato un’altezza insperata; ma la perfezione non è delle cose umane». Una lettura, quella dell’aviatore con il saio, che ci riporta con i piedi per terra anche oggi davanti all’esasperato progresso tecnologico dove tutto sembra tendere alla perfezione nonostante le molte opacità: vedi alla voce intelligenza artificiale.
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