Le nuove “culture wars” e la fragilità democratica
L'analisi è drammatica, ma allo stesso tempo invita ad affrontare senza paura le contrapposizioni

Ci riconosciamo reciprocamente come esseri umani uguali, che hanno bisogno gli uni degli altri e condividono le stesse ansie, incertezze e speranze? Oppure la storia culturale e i contesti sociali ci fanno diventare irrimediabilmente stranieri o addirittura nemici? Questo libro nasce dalla preoccupazione di vedere aumentare i conflitti etici e culturali (non solo etnici) dentro le società stesse. Mentre si dà importanza alle spaccature tra immigrati e abitanti autoctoni di un paese, alle guerre tra nazioni diverse o agli «scontri di civiltà», non si presta altrettanta attenzione alle guerre culturali sui temi della vita quotidiana dentro gli stessi ambiti di vita. Il motivo per occuparsene è chiaro: i conflitti a bassa intensità erodono la solidarietà delle comunità e possono preparare e facilitare la violenza, soprattutto in un momento in cui il ritorno dei nazionalismi e dei populismi, con la loro critica alla democrazia rappresentativa, costituisce un elemento di logoramento relativamente nuovo e potenzialmente molto pericoloso nell’Europa del xxi secolo. L’espressione «stranieri morali» nasce nell’ambito della bioetica. Hugo Tristram Engelhardt, qualche anno fa, ha definito in questo modo i membri di comunità che non condividono principi e visioni in ambito biologico e medico (pur essendo vicini e simili). Ma in questo libro viene utilizzata in un senso più ampio. Di fronte a diversità che considera radicali e irriducibili, il filosofo americano propone di trovare accordi procedurali. Ma, forse, di fronte all’estraneità, possiamo provare a fare qualcosa che viene «prima»: rileggere le diversità culturali come caratteristiche che ci riguardano, e che possiamo riconoscere come nostre anche in chi sembra molto lontano.
Questa esigenza vitale non riguarda solo i singoli, ma soprattutto la psicologia collettiva del profondo che orienta i gruppi. La vita dei corpi sociali fatti di persone non è mai governata solo da meccanismi strutturali (pure molto importanti), ma sempre intrecciata a come gli esseri umani vivono i cambiamenti. In questo senso, certamente nelle guerre armate conta il possesso delle risorse naturali (petrolio, acqua, terre rare); nei contrasti etici sono fondamentali i motivi religiosi che stabiliscono come viene considerato il valore della vita; in quelli in campo sessuale sono importanti le tradizioni ancestrali del popolo che stabiliscono, ad esempio, il posto (quasi sempre subalterno) delle donne e dei bambini. Ma tutti questi elementi si mischiano con i fattori che chiameremo «culturali», e capirli è fondamentale per vivere insieme. Può sembrare che descrivere le culture wars di oggi (ovviamente senza pretesa di completezza) porti a comporre un elenco pessimista, o un cahier de doléances.
In realtà, entrare più in profondità nella diversità delle visioni ha più di un’utilità. Da un lato, quella di coglierne la storia e la complessità. Questo è già un modo per facilitare la comprensione. Ma, soprattutto, c’è un altro fattore che conta quando entriamo nei fatti e nelle storie che hanno motivato scontri e battaglie culturali: il riconoscimento della comune ricerca di felicità che c’è dietro tutte le posizioni. Anche se l’odio ci spinge a vedere l’altro gruppo come irrimediabilmente diverso, possiamo «scoprire» che è fatto di persone, che hanno desideri e bisogni in fondo uguali ai nostri. Non dobbiamo, quindi, rassegnarci a diventare sempre più stranieri morali gli uni gli altri pur essendo della stessa famiglia, società, paese. Le nostre democrazie sono fragili, e possono morire non solo per colpi di stato, ma per l’azione lenta di una divisione tra i cittadini, che toglie fiducia al voler-vivere-insieme e agli strumenti democratici che servono per realizzarlo.
Una delle minacce più grandi è la progressiva crescita di polarizzazione politica, divaricazione di vedute e di idee che divide le comunità. In almeno venti democrazie occidentali la polarizzazione si è acutizzata negli ultimi anni, e crescono i governi che giocano sull’odio e la contrapposizione tra cittadini e «stranieri», tra partiti, tra «popolo» ed élite. Si tratta di una polarizzazione definita da Jonathan Haidt «affettiva», o meglio emotiva, che crea comunità di noi e loro. La frammentazione dei gruppi e l’isolamento in comunità autoreferenziali sembra aumentare la solidarietà interna, ma in realtà indebolisce anche gli aggregati sociali. Sia chiaro, il web ha avuto e ha un ruolo fondamentale in questo progressivo allontanamento. Ciò non significa dire che «è colpa di internet». Anzi, la rete, e oggi gli algoritmi dell’intelligenza artificiale, restano un miracolo dei nostri tempi, uno strumento straordinario di conoscenza e connessione. Uscendo però dalla facile e sterile contrapposizione tra tecnofobici e tecnoentusiasti, bisogna dire che i meccanismi del business delle grandi piattaforme hanno oggettivamente facilitato le divaricazioni. O meglio, si potrebbe dire che abbiamo (avevamo?) in mano il più grande strumento di avvicinamento tra persone e popoli e lo stiamo usando, soprattutto a favore del guadagno di pochi, per alimentare l’odio.
Tutti i casi citati in questo libro compongono un quadro di persone, gruppi, paesi che si scontrano sulla base di idee differenti, eppure stranamente somiglianti. Nel campo della produzione culturale (libri, romanzi, film...), sono ormai famosi i processi di censura da un lato e di cancel culture o woke dall’altro. Questi fenomeni, peraltro non nuovi nella storia, sono diversi dal passato. Nel primo caso, c’è un potere che elimina e punisce, nell’altro, minoranze etniche o donne o gruppi di difesa della diversità di orientamento sessuale che «dal basso» vogliono ricreare cultura, cadendo anche in eccessi di tipo fondamentalista (il famigerato wokismo). Ci sono quindi contese a livello storico su statue, monumenti e musei; le culture wars sono arrivate nelle classi scolastiche e si contendono le narrazioni per i bambini, da Cenerentola a Harry Potter. Le emozioni eccessive e turbinose prodotte dalla macchina dell’immaginario contemporaneo sono divenute un campo di battaglia. Per quanto riguarda il tema del sesso, il femminismo si oppone al patriarcato, ma è utile tentare di analizzare quali aspirazioni esprime, e quanti sono i femminismi in gioco (tanti). Anche una delle più importanti battaglie in campo sessuale, il gender, va compresa nelle sue sfaccettature, sullo sfondo di una trasformazione, anche se lenta, del ruolo della donna. La bioetica vede consumarsi gli scontri più accesi, sull’inizio e il fine vita, la sorte degli embrioni, l’eutanasia e l’accanimento terapeutico. Ma quali storie ci sono dietro? E quali implicazioni culturali oppongono i membri delle stesse famiglie? Tante diverse culture della vita si nascondono perfino dietro le battaglie pro o contro la pena di morte.
Il libro si conclude con gli scontri che più facilmente riconosciamo come tali: l’ostilità verso gli immigrati e le guerre armate. Non potevano mancare in un quadro delle culture wars contemporanee, benché in questi casi si parli purtroppo di bombe, droni, sangue e feriti. Di fronte al dolore dell’Ucraina e di Gaza – due tra i molti conflitti che non possiamo permetterci di dimenticare – parlare di «cultura» potrebbe sembrare fatuo e superfluo. Eppure, anche il razzismo produce effetti concreti: violenza, discriminazione, leggi che colpiscono vite umane. Tuttavia, proprio per non toccare con superficialità temi tanto profondi e complessi, in cui la sofferenza umana è tragicamente visibile, ho voluto rintracciare anche in questo campo gli aspetti forse meno evidenti: quelli che riguardano la mentalità e le immagini reciproche, nella speranza che possano favorire una comprensione più profonda.
Il caso più chiaro riguarda la madre di tutte le battaglie culturali, il cosiddetto «clash di civiltà», di cui il libro non si occupa se non per le sue implicazioni nelle guerre attuali. Occidente e Oriente sono l’emblema di realtà inventate, che non corrispondono a territori né a gruppi specifici. Eppure, Islam e Occidente restano come alternative, dimenticando quanto l’uno sia dentro l’altra, e viceversa. E l’immaginario conta, anche in questo caso, come il petrolio. Certo, parlare di culture wars può servire a poco davanti ai bombardamenti, agli interessi economici, agli eserciti, al nucleare e all’inerzia della diplomazia internazionale. Non è forse qualcosa di astratto ed effimero davanti alla distruzione e ai bambini uccisi? Ma comprendere le origini e le radici dell’avversione, cambiare la visione dell’altro da nemico a persona, fare i conti con le proprie tradizioni e con un diverso sguardo sulle varie situazioni contribuisce a disarmare le coscienze, che a loro volta armano gli eserciti.
La domanda finale del libro, in sintesi, non è se siamo o no stranieri morali, ma se vogliamo o meno restare una comunità morale, e se abbiamo interesse a farne parte. Se lo chiede, in fondo, anche Jürgen Habermas: «Senza l’emozione dei sentimenti morali di obbligazione e colpa, rimprovero e perdono, senza la libertà del rispetto morale, senza la felicità dell’aiuto solidale e lo sconforto del fallimento morale, senza la gentilezza di un procedimento incivilito nel trattamento di conflitti e contrasti, noi dovremmo sentire come insopportabile questo universo abitato dagli uomini». La sua risposta, e anche la mia, è che abbiamo bisogno di affrontare conflitti e contrasti senza paura, convinti che quella tale mentalità, quel convincimento, quella certa posizione sulle questioni etiche che riguardano la vita, la morte, la violenza, il sesso, l’educazione, gli stranieri – tutti elementi considerati come irriducibili – sono in realtà nient’altro che i tratti di una comune umanità. Le storie personali, i contesti sociali ed economici, le tradizioni e le mentalità collettive, le spinte della politica possono dividere, ma in realtà quelle differenze/somiglianze sono espressioni della stessa paura della sofferenza e della morte e dello stesso desiderio di vita.
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