Compassione perduta e umanità da ritrovare
Nel suo nuovo libro Franco La Cecla rintraccia nella storia umana un istintivo moto di fratellanza che non si esaurisce nell’emozione, ma è impulso all’azione di fronte a dolore e ingiustizia

Parlare di compassione oggi può sembrare ingenuo, in un mondo che mette continuamente in mostra la cattiveria umana. Ma cos’è la compassione? Un sentimento da coccodrilli già sazi della preda o un lusso riservato a chi può permetterselo? Nel libro Compassione. Un’antropologia politica (Castelvecchi, pagine 180, euro 18,50), del quale anticipiamo un estratto, l’antropologo e architetto palermitano Franco La Cecla rintraccia nella storia umana le tracce di una compassione che non si esaurisce nell’emozione, ma si traduce in un impulso all’azione
Non si può dire che la compassione sia merce corrente nel mondo contemporaneo. Non lo era nemmeno nel passato recente o remoto, ma ci eravamo illusi per un po’ che il suo retaggio non si fosse esaurito. L’evidenza con cui le nazioni ricorrono al dente per dente, alla violenza come risposta alla violenza, all’uccisione di civili come ritorsione militare, dà un quadro del presente dove l’homo homini lupus sembra l’unica certezza. Siamo di fronte a un mondo dove la competizione e la guerra sono parte dello stesso paradigma a costo di un suicidio collettivo e generalizzato. Non solo l’umanità è affetta dall’ovvietà della violenza, ma essa si riversa su tutto il mondo animale, vegetale e nei confronti delle risorse naturali e del pianeta. La stessa parola “compassione” appare ridicola in questo contesto. Cosa significa, cosa implica? A quali evidenze storiche, antropologiche, quotidiane essa si riferisce? Compatire nell’italiano corrente ha una connotazione di pietismo nei confronti di chi non ce la fa o non ce l’ha fatta. Si compatisce un perdente in una competizione generalizzata in cui non c’è né spazio né tempo per coloro che rimangono indietro. Oppure si compatiscono le vittime, risultato naturale di una guerra di tutti contro tutti. Queste a loro volta possono arrogarsi l’identità che viene loro attribuita. Così l’essere vittima diviene un’identità prevista all’interno della violenza come stato naturale.
Hobbes ne sarebbe soddisfatto e ne dedurrebbe che è della natura dell’uomo essere senza compassione, tranne quando essa serve per ricomporre un quadro della società che ha pur sempre bisogno degli ultimi per le proprie gerarchie. In ballo è proprio un’idea di “natura dell’uomo” che, nonostante tutte le apparenti conquiste del progresso, rimane “primitiva”, legata a una sopravvivenza del più forte nonostante qualunque revisione del paradigma darwinista applicato alla società. Si tratta di qualcosa di difficilmente definibile e afferrabile, la “natura umana”, di cui l’antropologia ci ha insegnato a sospettare come una elaborazione tipicamente occidentale con pretese universaliste. Ed è proprio all’interno dell’antropologia che una riflessione sulla compassione deve avere il suo luogo specifico. Se, come sostiene l’antropologa indiana Veena Das, l’antropologia è una forma di «devozione al mondo» o, come ci ha insegnato Lévi-Strauss, bisogna avere una fedeltà all’alterità, e secondo Clifford Geertz al punto di vista dei nativi, la vocazione propria dell’antropologia è quella di essere antiuniversalista. Si tratta però di una posizione a-dogmatica, legata a una pratica di ricerca che privilegia lo studio di come l’umanità appare nella sua quotidianità e nelle sue immense differenze storiche e geografiche. Proviamo a porre il quesito di partenza. È possibile oggi parlare di compassione? Nelle evidenze antropologiche, nelle vicende dei popoli indigeni e non, nel modo con cui l’umanità elabora geografia per geografia la propria quotidianità e i propri legami con il mondo circostante ci sono tracce di qualcosa di simile? E ancora: nel corso della Storia, da più parti, a Oriente e a Occidente sono state elaborati rituali, pratiche, filosofie e teorie della compassione. Che ne è stato e cosa ne è oggi? Porre così il quesito di partenza significa dare per scontato che quello che cerchiamo non è “un gene dell’altruismo” e nemmeno una giustificazione della bontà nel fondo dell’animo di ciascuno. Sono invece evidenze “contro-corrente”. Momenti, tentativi, resistenze, maniere di vivere che hanno contraddetto la tendenza alla violenza e alla dominazione. Sapendo bene che ogni assunzione della violenza come cifra definitiva dell’essere umano è altrettanto deviante. Nel corso della Storia e nelle elaborazioni filosofiche l’idea hobbesiana dell’homo homini lupus è altrettanto pretestuosa quanto quella della bontà originaria. Marshall Sahlins ci ha raccontato con ampiezza di documentazione la quantità e la diffusione di culture basate sulla reciprocità e sul rifiuto della dominazione gerarchica. La polemica di Sahlins con Tucidide, da lui ritenuto il primo autore che dà per scontata la violenza del più forte, è proprio in questo senso. Tucidide è il primo teorico del potere – greco – imperialista che ne giustifica la superiorità «naturale». Che la compassione non sia un dato “ovvio” dell’umano lo raccontano varie storie e parabole. Quella più vicina alla nostra cultura, la storia del Samaritano che soccorre uno sconosciuto, ci sembra familiare (ma lo è solo apparentemente). Un Dottore della Legge, cioè una autorità ebraica che conosce le Sacre Scritture, chiede a Gesù cosa bisogna fare per ottenere la vita eterna. Gesù gli risponde: Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso (Mt 22,37-39)5. È una sintesi dei comandamenti presenti nella Bibbia. Il Dottore della Legge insiste e gli chiede: chi è il mio prossimo? Una domanda tutt’altro che innocente a cui Gesù risponde con una parabola che spoglia di ogni ovvietà la risposta: Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano (cioè uno straniero ed eretico rispetto al mondo ebraico dei tempi di Gesù), che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno» (Lc, 10,30-35). Gesù alla fine della parabola chiede: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così». Nella parabola c’è un capovolgimento della logica della legge ebraica. Gesù pone la storia in un contesto estraneo al mondo ebraico, un contesto di confine. È giusto dare soccorso a qualcuno che non è della propria comunità di appartenenza? Tanto più se questo aiuto infrange delle regole di purezza? In più i Samaritani sono quasi dei nemici, ostili al punto tale che lo stesso Gesù si asterrà in una occasione dal mandare i suoi apostoli nei loro territori. Eppure, è un Samaritano il soccorritore – lo è mantenendosi estraneo, non ci viene detto se stringe amicizia con il soccorso, anzi sembra che lo lasci alle cure del locandiere, quasi mantenendo la propria anonimità. Si comporta come un vicino di casa, non come un amico, come qualcuno che è «prossimo», cioè vive una contiguità geografica – qui Gesù pone l’accento sulla occasionalità dell’incontro, la sua imprevedibilità. Cosa ribalta la logica semplice della legge, potremmo dire quella stessa dell’occhio per occhio, dente per dente? Il fatto è che il Samaritano «ne ebbe compassione».
Quello che accade non è spiegabile in base a un ragionamento di giustizia ed equità. Il movimento che produce l’azione è qualcosa che ribalta la logica quotidiana, la interrompe, le si sostituisce – per poi ritornare alla normalità. La compassione descritta da Gesù è un moto dell’anima, qualcosa rispetto alla quale si è quasi impotenti, proprio perché è una passione che ci prende le viscere. È qualcosa che Gesù stesso proverà quando, alla morte di Lazzaro, di fronte al pianto di Maria, la sorella di Lazzaro, si commuove. Questo moto infrange, fa eccezione – Gesù ribadisce a Maria che Lazzaro resusciterà come tutti i giusti nell’ultimo giorno, ma la logica della commozione non accetta le attese. E il miracolo della resurrezione di Lazzaro è un ribaltamento della logica delle cose, almeno sembra questo il senso di un intervento “imprevisto” di Gesù. Questa è la tradizione cristiana, quella dentro la quale la compassione è una commozione, cioè qualcosa che ha natura di una passione – non di un sentimento –, un raptus improvviso che vi prende, attanaglia e vi spinge a far qualcosa senza chiedervi il perché. La compassione ha la logica dell’urgenza – richiede uno svolgimento, una risposta immediata, è in qualche modo la contingenza assoluta, l’immanenza, la prossimità fisica assoluta. La compassione è un sentire/fare, un moto dell’animo che diventa immediatamente un’azione, un’emozione agente.
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