Carlo Bianchi, il ribelle senza fucile ucciso dai nazifascisti

Il nuovo libro di Palini ricostruisce la figura di Bianchi: non ha combattuto con le armi ma con la forza delle parole e l’aiuto al prossimo. Venne fucilato a 32 anni
September 2, 2025
Carlo Bianchi, il ribelle senza fucile ucciso dai nazifascisti
- | Carlo Bianchi con la moglie Albertina Casiraghi e i figli Guido ed Emilio
Ribelle per amore. Partigiano senza fucile. Testimone del Vangelo. Martire della carità, della giustizia, della libertà. E, purtroppo: eroe dimenticato. Come altri operatori di pace. Di quella pace disarmata e disarmante alla quale oggi chiama, instancabile, Leone XIV. Di Carlo Bianchi – nato a Milano il 22 marzo 1912, arrestato il 27 aprile 1944 in piazza San Babila assieme a Teresio Olivelli, con il quale condivideva la militanza nelle Fiamme Verdi, nella Resistenza al nazifascismo, infine fucilato a Fossoli il 12 luglio dello stesso anno – si può dire quel che Paolo VI affermava nell’Evangelii nuntiandi: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni». E Carlo Bianchi – formatosi nella Fuci di Giovanni Battista Montini e Igino Righetti, che conobbe personalmente – è l’uno e l’altro a pieno titolo.
Ma a lui – come ad altri maestri e testimoni che l’Italia ha pur saputo generare anche nella sua stagione più buia, quella della dittatura fascista, fino al redde rationem della Seconda guerra mondiale – vanno restituiti la voce e il volto, affinché la cattiva memoria di questi nostri tempi non completi l’opera di dissoluzione d’ogni differenza fra male e bene, fra carnefice e vittima, fra complici dei persecutori e amici dei perseguitati. Perciò è iniziativa opportuna e preziosa il libro di Anselmo Palini Carlo Bianchi. Per un domani non solo di pane, ma di giustizia e di libertà (Ave, 218 pagine, euro 15,00), che ne ricostruisce la vita, l’opera e il pensiero.
Bianchi seppe bene da che parte stare. E in quale modo: come attesta il ruolo decisivo avuto nella fondazione e nel funzionamento della “Carità dell’Arcivescovo”, l’opera assistenziale e caritativa – avviata accogliendo l’appello lanciato il 16 febbraio 1943 dal cardinale Schuster – rivolta a quanti erano rimasti senza casa e senza mezzi a causa della guerra e dei bombardamenti su Milano. Come conferma l’ingresso nel Clnai (Comitato di liberazione nazionale Alta Italia) e l’impegno nelle Fiamme Verdi, al fianco di Olivelli, con il quale si occupò della redazione e diffusione del foglio “Il Ribelle” e stese la famosa “Preghiera del Ribelle”. Come testimonia infine la collaborazione con l’Oscar (Organizzazione soccorso collocamento assistenza ricercati), sorta su iniziativa di figure come don Andrea Ghetti, suo amico già dai tempi della Fuci, per aiutare nell’espatrio i perseguitati dai nazifascisti.
Cresciuto nell’Ac e nella Fuci, laureatosi in ingegneria, entrato nell’azienda paterna, una cartotecnica con annessa tipografia, nel 1938 Bianchi sposa Albertina Casiraghi. E presto arrivano tre figli maschi, gli amatissimi “crapini”. Avrebbe potuto farsi gli affari suoi, il giovane Carlo. Invece no. Scelse di vivere quegli anni tragici da samaritano, non come quelli che volgono lo sguardo altrove. E non fu un “antifascista da 25 aprile”: lo fu sempre, lo fu quando conveniva essere fascisti. E lo fu perché capì, prima di tanti altri, la radicale incompatibilità tra Vangelo e fascismo.
Come altri partigiani, Bianchi non usò le armi. Il suo contributo alla Resistenza – sottolinea nella prefazione lo storico Paolo Trionfini – fu anzitutto culturale. E spirituale. Lo dimostra non solo il ruolo avuto nel “Ribelle” – per il quale mise a disposizione la tipografia, da dove uscirono anche documenti falsi per i perseguitati assistiti dall’Oscar – ma la stesura assieme a Olivelli di un documento intitolato Schema di discussione di un programma ricostruttivo ad ispirazione cristiana. La sfida non era solo sconfiggere il nazifascismo, ma gettare le basi di una nuova Italia.
Il 27 aprile 1944 Bianchi e Olivelli vengono arrestati a seguito di una delazione. Rinchiusi a San Vittore, ritrovano altri amici del “Ribelle”. E la loro cella – attesta don Paolo Liggeri, deportato a Dachau per aver nascosto ricercati dai nazifascisti – diventa luogo di preghiera, riflessione, dialogo sulla «rivoluzione cristiana del domani», un vero «cenacolo spirituale, culturale e politico». Col trasferimento al campo di Fossoli, a quel cenacolo si associa Odoardo Focherini, amministratore dell’”Avvenire d’Italia”, arrestato per aver creato un’organizzazione per salvare gli ebrei.
Il 12 luglio 1944 Bianchi venne fucilato con altre 66 persone. È la «più anomala fra le stragi nazi-fasciste», disse Carla Bianchi Iacono, la quarta figlia di Carlo, nata poco più di un mese dopo la sua morte (e che firma la postazione al libro di Palini) nell’intervento tenuto davanti al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in visita a Fossoli il 25 aprile 2017. «Una strage anomala e difforme perché al contrario di tutte le altre fu compiuta con metodica, teutonica precisione: la scelta nominativa delle vittime, la richiesta del comandante del Campo di evacuare tutti i civili dal Poligono di Cibeno per 24 ore, la lettura della condanna a morte spacciata come rappresaglia e l’occultamento dei corpi sotterrati in una fossa comune». Tutto fa pensare a «un’azione mirata, ordinata ad altissimo livello, forse a Berlino, per colpire segnatamente ambienti politici e culturali significativi del centro-nord Italia per la loro decisione di partecipare con ruoli decisivi nella Resistenza», scrisse il senatore Luciano Guerzoni in un’interpellanza al Ministro della Difesa il 6 agosto 1996.
Il libro pubblica tutte le lettere che Bianchi riuscì a mandare ai familiari dalla prigionia. Ecco due frammenti, a restituire la luce di questa figura straordinaria. Così scrisse alla moglie Albertina nella terza lettera da San Vittore: «Perdonami il grande dolore che per causa mia viene a colpirti: tu sai però che il dolore non è sterile se offerto a Dio con retta intenzione: offriamo insieme al Signore le nostre sofferenze perché ne venga tanto bene a tutti, alla patria, a quelli che ci fanno del male, ai nemici a cui perdono di cuore». E al padre, nella quarta lettera da Fossoli: «Sono fiero di essere qui perché qui sono certo che soffro per il domani dei miei figli che non è fatto solo di pane e di moneta, ma innanzitutto di libertà e di giustizia».

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