«Cancel culture, ultimo frutto del 68»
Per l'autore di "La guerra contro il passato" «attaccare il passato serve a legittimare le nuove identità. È più facile parlare dei tempi andati che affrontare le questioni contemporanee»

«Apprezzare e comprendere le tradizioni ci permette di cogliere le possibilità future. Le lezioni del passato, apprese nel presente, arricchiscono il futuro. Le tradizioni viventi proseguono una narrazione non ancora completata e si trovano di fronte a un futuro il cui carattere determinato e determinabile deriva dal passato» scrive Frank Furedi, professore emerito di Sociologia all’Università del Kent, a conclusione del suo libro La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica (pagine 390, euro 20,00), da oggi in libreria per Fazi editore, corredato da una prefazione di Andrea Zhok e l’ottima traduzione di Riccardo Cristiani. Statue abbattute, parole bandite, libri rivisti. Il politicamente corretto e la cultura woke procedono alla sistematica delegittimazione ideologica del passato europeo accusato di complicità con lo sfruttamento e l’oppressione. E contro di esso hanno ingaggiato La guerra contro il passato.
Può fornire, professore, una definizione dell’espressione che dà il titolo al suo libro?
«La guerra contro il passato non consiste semplicemente nel liberare il mondo contemporaneo dall’influenza della storia, ma anche nel trattare il passato di una nazione come una storia di cui vergognarsi. Questa guerra considera l’eredità storica delle società europee priva di qualsiasi possibilità di riscatto».
La tendenza a rappresentare il passato come fonte di vergogna e di colpa da dove nasce? «Emerge a partire dalla fine degli anni Settanta e si è sviluppata in seguito alla Rivoluzione culturale del Sessantotto. In particolare, ha preso il via con l’affermarsi di politiche identitarie, un fenomeno che è andato di pari passo con l’erosione delle ideologie del Novecento, comunismo, socialismo, liberalismo. Se si aggiunge la perdita di orientamento verso il futuro si capisce come molti attivisti siano arrivati a lavorare sul passato come fosse il loro progetto politico. D’altronde è più facile cercare di risolvere i problemi dei tempi andati che affrontare le questioni della società contemporanea… Attaccare il passato serve a legittimare le nuove identità».
Nel libro lei introduce il concetto di “archeologia della rimostranza”. Potrebbe spiegare cosa intende e fornire qualche esempio concreto?
«Mi riferisco alla tendenza a leggere la storia a ritroso per corroborare gli assunti aprioristici delle rimostranze contemporanee che sono all’origine della politica dell’identità. Per esempio, la cultura della democrazia inventata ad Atene viene negata dagli attivisti a causa dell’esistenza della schiavitù. Gli archeologi della rimostranza scoprono costantemente nel passato conferma delle loro convinzioni. Per esempio, gli attivisti trans rivendicano Giovanna d’Arco come una di loro perché si vestiva da uomo. L’archeologo della rimostranza si lusinga continuamente nel aver ritrovato motivazione nel passato per le proprie ossessioni del presente».
Lei parla della “lotta per il controllo del linguaggio” come parte della guerra contro il passato. Può spiegare come il linguaggio sia diventato un campo di battaglia così importante?
«Il linguaggio è molto importante perché, come notava George Orwell, chi controlla il linguaggio controlla anche il nostro modo di pensare. La polizia linguistica, che ha come obiettivo l’eliminazione di parole basate sul genere e l’adozione forzata di nuovi termini neutri, svolge un ruolo fondamentale nelle attuali guerre culturali. L’eliminazione di parole ed espressioni tradizionali e la loro sostituzione con termini di nuova invenzione è attivamente promossa dalle agenzie culturali».
Come si ripercuote questa guerra culturale sulle nuove generazioni?
«Il campo di battaglia della guerra scelto dagli attivisti va dagli asili nido alle università. Vorrebbero che i programmi di studio fossero concepiti in modo tale da allontanare i giovani dal passato della loro comunità. Si cerca attivamente di minare il senso di continuità culturale e persino di limitare l’influenza delle precedenti generazioni, compresi i genitori, sui giovani, educandoli a credere che modi e abitudini del passato siano moralmente inferiori ai loro».
Lei sottolinea spesso l’importanza della “saggezza del passato”. Che ruolo dovrebbero avere gli intellettuali, le scuole e i media in questa difesa?
«L’eredità storica è importante perché racchiude l’esperienza delle generazioni precedenti. Le istituzioni culturali ed educative dovrebbero considerare l’eredità dell’esperienza dell’umanità come una risorsa a cui attingere sia per evitare gli errori del passato sia per valorizzarne le conquiste. Per realizzare questo obiettivo è necessario rivoluzionare le istituzioni scolastiche e accademiche. Abbiamo bisogno di una nuova schiera di intellettuali pronti a sfidare la temperie conformista dei nostri tempi».
Quali le conseguenze di questa perdita del passato?
«La perdita di continuità culturale priva le persone del senso di appartenenza e quindi di comprensione del proprio posto nel mondo. Le persone sradicate dal passato hanno difficoltà a coltivare un senso di solidarietà, a capire cosa le unisca. Orfana del passato, la società rimane inchiodata nel presente e, in assenza di conoscenza delle proprie origini, incapace di orientarsi verso il futuro. L’amnesia sociale a cui è consegnata la società dalla perdita della propria memoria storica, riduce la capacità di costruirsi il destino a venire».
Come possiamo contrastare efficacemente questa tendenza?
«Domanda difficile. In modo ottimale, dobbiamo diventare molto più efficaci nel rispondere agli attacchi incessanti all’autorità morale del passato. Ma soprattutto dobbiamo dimostrare l’attualità di una visione radicata nella sua comprensione. Invitare a coltivare un senso di continuità culturale è un antidoto positivo al progetto di sradicare la società dalla sua eredità. Dobbiamo anche prendere più seriamente lo studio della storia. Evitare di leggere la storia al contrario e trattare il passato secondo i valori di oggi. Occorre quindi comprendere il passato all’interno di uno specifico contesto storico e non imporgli le nostre preoccupazioni».
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