Addio Goffredo Fofi: lo sguardo critico di uno "Straniero"
Saggista, critico cinematografico e letterario e intellettuale impegnato a tutto tondo, collaborò a lungo con "Avvenire"

È morto un amico. Un amico di "Avvenire", un amico di quasi tutti: Goffredo Fofi. In estate arrivava puntuale nella nostra redazione milanese sempre vestito da eterno viandante, scendeva da un treno preso al volo con il sandalo consumato e la gerla sulle spalle carica di libri e di appunti. Immagini che rimandano al docufilm che gli ha dedicato Felice Pesoli, dal titolo emblematico Suole di vento. Impossibile sintetizzare gli 88 anni vissuti da quest’uomo abitato dalla voglia di conoscere e di andare sempre a fondo alle cose e alle storie, armato solo da quella lanterna da Diogene del '900 proiettato sul futuro. Non basterebbe un intero giornale per descrivere tutto ciò che è stato, che ha fatto, che ha detto e che ha scritto anche sulle rubriche che per anni ha portato avanti con penna certosina e con altrettanto “empirismo eretico” su "Avvenire", che per questo gli sarà sempre grato.
Fofi è stato essenzialmente un nomade, un pensatore libero come pochi altri nati nel secolo scorso, a Gubbio, nel 1937. “La città dei matti e un po’ mi ci sento sai” confidava nelle nostre lunghe chiacchierate, molte telefoniche, in cui ricordava quella fuga dal piccolo mondo antico eugubino avvenuta a 18 anni. Un treno solo andata per Palermo per raggiungere il filosofo pacifista Danilo Dolci e alzare assieme a lui le prime barricate con gli “scioperi a rovescio”, a difesa dei lavoratori sfruttati e poi per gridare il primo assordante “no alla mafia” che non era ancora quella bombarola degli anni '90. Ma il genio ribelle di Goffredo, laggiù nella terra del Gattopardo si beccò il primo marchio di “incompreso”, macchiandosi del reato di insubordinazione per aver insegnato ai braccianti analfabeti senza prendere regolare stipendio. Delitto d’alfabeto si intitolava l’editoriale difensivo di Lucio Lombardo Radice apparso su "L’Unità", che di fatto dava il benvenuto a Fofi nella comunità degli uomini rari di questo Paese destinati ad andare sempre in direzione ostinata e contraria.
Un esule in patria che a Parigi assaporò il gusto pieno della sua più grande passione, tra le tante, che ne fanno un saggio superiore ancor prima che un saggista straordinario, il cinema. Nella Ville Lumiere, dove non mancava mai di tornare, lasciò articoli pubblicati sulla rivista "Postif" e rientrato in Italia era pronto ad aprirne una, i "Quaderni piacentini", con Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi. Tanta critica letteraria, certo, ma a Goffredo in quel momento di radicali e profondi cambiamenti sociali interessavano gli ultimi, gli emarginati. Così su quelle pagine di accademismo letterario pubblica una dirompente, per i tempi, inchiesta come L'immigrazione meridionale a Torino sulla classe operaia che andava sempre più all’inferno nella pressa del lavoro a catena avvolto nebbia torinese. Solo Feltrinelli ebbe il coraggio di pubblicare gli scritti sulfurei del giovane Fofi che nella città della Fiat nel ’68 aprì la redazione della rivista "Ombre rosse." Cinema e politica si fusero come non mai e l’agitatore di popolo accendeva polemiche incendiarie che creavano inevitabilmente dibattiti accaldati e talora scandalo, come la sua casa editrice sessantottina La Forum Editoriale.
Ribelle e sognatore, orgoglio, senza pregiudizio, questa la cifra fofiana che si contrapponeva all’altro pensiero forte di quel periodo di saggistica e di poesia civile, lo spirito pasoliniano. “È con Pasolini che ho litigato di più è da lui che mi sono sentito più provocato, chiamato in causa su argomenti fondamentali della nostra storia civile, e dunque della mia stessa storia”, ha scritto in uno dei suoi innumerevoli saggi sul Poeta di Casarsa con il quale all’inizio si trovò in piena sintonia sul meridionalismo di Danilo Dolci ed Ernesto De Martino, ma poi come un Donnarumma, Fofi andò all’assalto, senza mai risparmiare critiche ai suoi film, al Vangelo secondo Matteo e ai Racconti di Canterbury. Onore delle armi a un antagonista con cui il livello dialettico si alzava e quello degli anni ’60-’70 era ancora un Paese dove la voce degli intellettuali aveva il suo peso. Mentre oggi, scriveva Fofi dalle colonne di "Avvenire", “in Italia la figura dell'intellettuale è completamente appannata. Non gli si chiede più nulla, manca ogni dialettica tra la cultura, da una parte, e la politica e la società, dall'altra». Parole scritte a macchina da un camminatore solitario, stanco, distante dal Goffredo impavido che nel ’72 (l’anno di Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio con cui aveva scritto e riscritto la sceneggiatura) a Napoli animava la Mensa dei bambini proletari cantata da Enzo Moscato. Napoli città teatro, uno dei suoi tanti luoghi dell’anima dove con Stefano De Matteis ha fondato un’altra rivista ultralternativa, Dove sta Zazà.
Fofi è stato un creatore quasi longanesiano di periodici sempre pieni di pagine di approfondimento, e se possibile corrosive. Viveva la banalità come un male estremo, ma non ha mai rinunciato all’ironia e a quel sorrisetto sardonico sopra a quella barba diventata candida come la neve dell’Appennino da cui era scollinato. Così, quando gli ricordavi che era rimasto l’ultimo critico davvero militante di questa Italietta incolta e barbara, lui rispondeva ironico, “sì sono un militante ignoto”. L’essenza di quel mestiere naturale del critico è in queste righe in cui elogia Un altro Proust di Giacomo Debenedetti. “Ha sempre qualcosa di commovente la dedizione di un critico a un autore nel cui percorso si è riconosciuto, che lo ha chiarito a se’ stesso. Sulle sue idee egli ha costruito le sue convinzioni in un confronto dapprima istintivo e poi via via più adulto, vedendole espresse meglio di quanto egli non saprebbe mai fare e dandosi di conseguenza il compito di farle conoscere. Studia, traduce, presenta, commenta al fine di divulgare quelle idee a una cerchia di lettori che sogna sempre più vasta, perché ne possano trarre giovamento, nutrimento”.
Noi siamo l’ultima generazione che si è nutrita dei libri di Goffredo Fofi che andrebbero riletti tutti, dai saggi sociopolitici a quelli sul cinema e il teatro in cui come un rabdomante andava sempre alla ricerca del genio perduto cancellando quelle smemoratezze imperdonabili su stelle indimenticabili come Anna Magnani e Totò. “La cultura, l’arte, va cercata nel fondo del popolo”, mi disse una volta mentre parlavano di musica pop e di Nino D’Angelo il quale ricordava in una intervista concessa ad Avvenire: «Non smetterò mai di ringraziare un intellettuale onesto e coraggioso come Goffredo Fofi. E’ stato lui a sdoganarmi e a comprendere il senso profondo di un brano come Ciucculatina d' 'a ferrovia e a dire ad alta voce che io non ero semplicemente un cantante neomelodico, ma la vera voce del sottoproletariato napoletano». A Fofi deve dire grazie forse la metà della saggistica e della narrativa italiana tuttora in voga, da Alessandro Baricco fino a Roberto Saviano. Un talent scout quasi inconsapevole che fiutava prima il senso e la portata dell’opera e del messaggio da trasmettere al lettore e solo dopo la possibilità di ottenere un consenso, che andava ben al di là della bieca logica commerciale dominante. Goffredo straniero tra gli stranieri. E non a caso la sua rivista più acclamata e duratura è stata Lo straniero: nato nel 1997, e chiuso nostalgicamente nel 2016 per lasciare il posto a Gli asini. Un visionario Fofi che tra i tanti incontri fatti per le strade del mondo che ha solcato, ha avuto anche la fortuna di imbattersi nel più visionario degli scrittori, Borges. Del genio argentino amava tutta l’opera, comprese le sue grandi “contraddizioni filosofiche” ed era affascinato da quell’ aforisma in cui forse si rispecchiava la sua anima: “Per certi comunisti, se sei anticomunista sei subito definito fascista. Questo è incomprensibile, quanto affermare che se non sei cattolico sei un mormone”.
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