Ad Haifa la convivenza è animata dai detenuti
Dal 1982 l’House of Grace funziona come una struttura di reinserimento per detenuti nata per offrire una casa e delle relazioni, oltre a un lavoro, come strada per sanare le ferite
Non è Gerusalemme, la Città Santa dove tutto richiama la fede e i riti di ebrei, cristiani e musulmani. Non è la dinamica Tel Aviv, la città israeliana dell’high-tech e delle spiagge; ma nemmeno Ramallah, il cuore della comunità palestinese. Haifa è la meno ideologica tra le città della Terra Santa. Quella dove ebrei e arabi vivono davvero fianco a fianco, ma senza che questo significhi vivere insieme. In questa città del nord di Israele – famosa per il suo porto e il politecnico, oltre che per il santuario da cui ha avuto origine la devozione alla Madonna del Carmelo – da più di quarant’anni esiste però anche un piccolo segno quanto mai significativo nel Medio Oriente lacerato di oggi. Si chiama House of Grace (la “Casa della grazia”) ed è un luogo dove a portare avanti la sfida dell’incontro tra i popoli che vivono in Terra Santa sono gli ultimi che ti aspetteresti: un gruppo di giovani detenuti ammessi a misure alternative al carcere.
A volerla fu Khamil Shehade, un giovane cristiano melkita di Haifa, che era rimasto profondamente colpito da un’esperienza personale: la storia di un suo amico di infanzia, morto suicida nella prigione dove era rinchiuso a causa di un furto compiuto per trovare i soldi necessari per curare la madre ammalata. Con il consenso del vescovo che mise a loro disposizione un’antica chiesa in disuso, insieme alla moglie Agnes – un’insegnante di origini svizzere – Khamil aprì nel 1982 l’House of Grace. Divenne la prima struttura di reinserimento per detenuti rilasciati dal carcere in Israele. Iniziativa di una famiglia, proprio a partire dall’idea che offrire una casa e delle relazioni, oltre a un lavoro, siano la strada per sanare le ferite. Quelle create da chi commette reati, ma non solo. Perché con i suoi ospiti questo centro di Haifa offre aiuto a tutti: giovani a rischio, famiglie in difficoltà, sopravvissuti all’Olocausto, senza guardare alle appartenenze religiose o etniche.
La famiglia Shehade quest’esperienza straordinaria ha continuato a portarla avanti anche dopo la morte prematura di Khamil, avvenuta nel 2000 ad appena 46 anni. Senza che rimanesse, però, un’oasi isolata dal resto della Terra Santa: anche i due anni di guerra aperti dal 7 ottobre 2023, per esempio, sono stati un’esperienza durissima. Lo scorso 20 giugno un missile iraniano è atterrato ad appena 100 metri di distanza: la struttura di accoglienza è stata danneggiata, con le finestre in frantumi e il tetto lesionato. Fortunatamente nessuno è stato ferito e poco alla volta la stanno riparando. Ma ci sono anche i danni meno visibili con cui fare i conti. «Le famiglie che serviamo affrontano la devastazione economica – racconta nell’annuale lettera ai benefattori Jamal Shehade, il figlio di Khamil e Agnes che oggi porta avanti il loro impegno –. I giovani della nostra comunità assistono alla violenza e ne avvertono l’attrazione. Gli ex detenuti impegnati in un percorso di riabilitazione si muovono in una società consumata dal conflitto. Eppure – aggiunge Jamal – in ogni sfida, vediamo un’opportunità di ministero e di testimonianza». Il responsabile dell’House of Grace racconta che quando famiglie cristiane, musulmane ed ebree ricevono aiuto insieme al centro di distribuzione «vediamo il regno di Dio farsi strada in modo concreto». «Il brano della Scrittura che ci ha guidato quest’anno – conclude Jamal – è stato il versetto della lettera agli Efesini: “Siate benevoli e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonati in Cristo” (Ef. 4,32). In una regione lacerata dall’odio e dalla vendetta, scegliamo ogni giorno di dare esempio di perdono e riconciliazione. Non è un lavoro facile. Ma è un lavoro santo».
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