Tra il disastro e il trionfo una strada per crescere

June 3, 2025
Non sempre si può vincere. Anzi, nello sport, si perde molto più spesso di quanto si vinca. È proprio questa la ragione per la quale, contrariamente a quello che racconta un certo tipo di retorica, lo sport insegna soprattutto a perdere, non a vincere. Lo sport insegna che perdere è parte naturale, fisiologica, necessaria del percorso di apprendimento. Anzi, estremizziamo pure senza cadere nell’eccesso opposto di retorica: lo sport è utile, necessario, soprattutto perché insegna a perdere e a fare i conti con la necessità di analizzare i motivi di una sconfitta. Capire che cosa sarebbe stato possibile fare meglio, cosa hanno fatto meglio i tuoi avversari, definire i punti di forza e mettere a fuoco i margini di miglioramento è un lavoro che, tanto di squadra che individualmente, quando si vince si fa decisamente meno. Perdere, dunque, è necessario per poter vincere la volta successiva, o almeno per prepararsi nel modo migliore a farlo. La sconfitta – clamorosa nella portata – dell’Inter nella finale di Champions League, o quella di Jasmine Paolini al Roland Garros, simmetricamente clamorosa perché arrivata dopo aver ripetutamente sfiorato la vittoria con tre match points non trasformati, sono lì a ricordarcelo. Certo in questa società così orientata alla ricerca del “tutto e subito”, alla iper-competizione, alla felicità e alla frustrazione come sentimenti da consumare in velocità, forse leggere la sconfitta in questo modo sembra incomprensibile, ma è così nello sport, nel mondo della scuola come in quello dell’impresa, in qualunque contesto orientato a restituire una valutazione della prestazione. Michael Jordan, sei titoli del basket Nba e due medaglie d’oro olimpiche, ha detto: «Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri, ho perso quasi trecento partite, ventisei volte i miei compagni di squadra mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte, molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto». Roger Federer, venti volte vincitore di tornei del Grande Slam, della Coppa Davis, di una medaglia d’oro e di una d’argento ai Giochi Olimpici, ha recentemente dichiarato, proprio in un bel discorso rivolto a studenti universitari: «Ho vinto oltre l’80 per cento delle 1.526 partite di singolare che ho disputato in carriera, ma nonostante questo ho vinto soltanto il 54 per cento dei punti che ho giocato». E proprio Federer ha ricordato che quando devi fronteggiare un numero così elevato di errori sei costretto a imparare a trarne, il più rapidamente possibile, il feedback più efficace e a passare oltre, per preparare nel migliore dei modi il punto successivo. Nelle ultime settimane il calcio e il tennis ci hanno regalato immagini indimenticabili di vittoria (lo scudetto del Napoli, Jasmine Paolini agli Internazionali d’Italia) o brucianti sconfitte (l’Inter a Monaco, Sinner in finale a Roma e l’eliminazione di Paolini stessa a Parigi) su cui riflettere e, possibilmente, in entrambi i casi, di cui fare tesoro, andando oltre al semplice aspetto emozionale. Proprio come diceva il poeta Rudyard Kipling in un verso della sua poesia Se che – guarda un po’ – è scritto all'ingresso del Centre Court dell'All England Club di Wimbledon, il regno del tennis: «Che tu possa incontrare il trionfo e il disastro e fronteggiare quei due impostori nello stesso modo». © riproduzione riservata

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