Gli atleti rifiutino lo sport ambasciatore di ipocrisia
C’è un’immagine, rubata alla lucidità e consegnata alla distopia, che racconta molto di questo nostro tempo sbandato. Donald Trump, presidente degli Stati Uniti che sta lasciando cicatrici profonde nella democrazia americana, si presenta nel suo studio ovale, alla Casa Bianca, davanti a un drappello di calciatori della Juventus. Li usa, con la regia del Presidente della Fifa Gianni Infantino, letteralmente, come tappezzeria o, peggio, come pupazzi. Con loro (e i loro musi lunghi) alle spalle, parla di guerra. Poche ore dopo, arrivano i bombardamenti su siti nucleari in Iran, nel cuore di una crisi dai contorni tragicamente imprevedibili. Quei giocatori, lì per disputare il Mondiale per Club negli Stati Uniti, diventano comparse silenziose di un copione inaccettabile. E mentre i bianconeri sono in campo, dall’altra parte del mondo Mehdi Taremi, attaccante iraniano dell’Inter, è bloccato sotto le bombe. Non può raggiungere i suoi compagni, anch’essi negli Stati Uniti per disputare lo stesso torneo, così l’Inter gioca serenamente nel Paese che ha appena bombardato quello di Taremi, con lui laggiù sotto al fuoco e i suoi compagni di squadra sull’erba di uno stadio illuminato dai riflettori. Ecco il paradosso, perfetto e spietato. Il calcio come specchio rovesciato della geopolitica. Il pallone come involontario ambasciatore dell’ipocrisia. Sì, ipocrisia: perché non è più tempo per il silenzio. Lo sport, da tempo immemore è veicolo di soft power, brandizzazione del consenso, diplomazia parallela. Il cosiddetto sportwashing è solo una delle sue declinazioni, quella che nasconde con lustrini e inni nazionali le violazioni dei diritti umani, le repressioni, le guerre. Ma ciò che accade oggi è un passo ulteriore, perfino più grave: lo sport viene usato attivamente per giustificare la guerra. Le foto di Trump con i giocatori della Juventus non sono un incidente. Sono una scelta precisa, uno strumento di legittimazione: lo sport come maschera del potere. È per questo che, oggi più che mai, serve un gesto di disobbedienza. Serve che siano gli atleti — che restano i protagonisti assoluti dello sport, quelli senza i quali lo sport non esisterebbe — a dire basta. Non si tratta di politicizzare lo sport: lo sport è già profondamente politico. Si tratta di assumersi una responsabilità, di scegliere da che parte stare. Dirlo, pubblicamente, anche a costo di rompere contratti o saltare convocazioni. Perché non si può più accettare che i corpi degli atleti vengano prestati a chi bombarda, a chi reprime, a chi uccide. Non si può più essere neutrali, se la neutralità diventa complicità. E allora, a chi tocca? Agli atleti, lo ripeto, perché non è più il tempo per sentirsi dire: “Zitto e pensa a giocare”. LeBron James, Stephen Curry, i Golden State Warriors al completo e Megan Rapinoe da Trump non ci sono voluti andare. Hanno fatto una scelta, se ne sono assunti la responsabilità. E allora, il gesto più rivoluzionario oggi sarebbe forse quello di un giocatore che esce dal campo. Di una squadra che decide di non giocare. Di una federazione che rifiuta di prestarsi a un torneo organizzato in un Paese che ha appena aperto un nuovo fronte di guerra. Forse, in fondo, si tratta solo di tornare all’essenza e di avere il coraggio di dire: non in mio nome. © riproduzione riservata
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