venerdì 8 gennaio 2021
La prima impressione, se entri in un monastero, è l'impatto con un silenzio denso come materia. Quasi cadere nel profondo di un mare. Quel silenzio ti mette a confronto con te stesso, ti mette a soqquadro. È un silenzio sovversivo. Sono stata, alle volte, ospite di una clausura. Divisa fra una sorta di paura, quasi annaspando nel vuoto, e una singolare attrazione. Le monache si dedicano all'essenziale. Lavorano e pregano, incessantemente, già dal fondo della notte, quando nulla ancora annuncia il giorno. Come se non si dovesse mai smettere. Come se non ci si potesse mai allontanare, da quell'operosa fucina. Perché nei remoti angoli del mondo qualcuno ha sempre, urgentemente bisogno di preghiera. Sempre più, pregare mi pare l'opera più necessaria - strano lo dica io, che da giovane ero tanto irrequieta e vagabonda. Mi piacerebbe perfino, un giorno, essere capace di osservare quei ritmi, e lavorare in una vigna o in un orto, e tacere e recitare a ore fisse Lodi e Vespri, come scandendo il respiro delle ore. A volte mi dico che vorrei consumare il tempo che mi resta in ciò che è, appunto, l'essenziale. Ma quel silenzio, lo so bene, mi sarebbe insostenibile: scapperei. Perché nel silenzio si fa più forte una voce, che domanda. (Oppure quello stesso silenzio è già domanda).
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