venerdì 8 febbraio 2013
Milano, 31 dicembre 1999. Tra un'ora inizia il terzo millennio. Sul divano di casa ho in braccio la terza figlia, tre anni. I suoi fratelli si affacciano alle finestre, eccitati dai botti, più forti nell'approssimarsi della mezzanotte. Mio marito ride con loro. Sul balcone, al freddo, una bottiglia di spumante. Non so però se sarò sveglia a mezzanotte - dopo una giornata dietro a questi tre, ho un gran sonno.Me li contemplo, nella felicità di una sera in cui non può squillare il telefono, e nessuno dalla redazione mi dirà di partire, e di mandare subito un pezzo. Questa sera non è in viaggio, ma a casa. Noi due e questi tre, che da ragazza non avrei immaginato di avere; e che ora sono la cosa più grande che potrei desiderare. Due maschi, e una bambina. Lei, già a sei mesi, diversa. («Esiste la donna?» si domandava pensoso un saggio di Simone de Beauvoir - pressoché obbligatorio leggerlo, per le liceali della mia generazione. Oggi risponderei che sì, esiste: e per vederlo basta avere una bambina).Caterina, ora dorme. Lo schiocco del tappo che salta, lo spumante che trabocca festoso dalla bottiglia. Una goccia sulle labbra di lei, e i due, riottosi, da portare a letto. Peguy scrisse: «Bisogna avere avuto una grande grazia, per sperare». I figli, per me sono questa grazia.
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