venerdì 30 agosto 2013
Molte le donne che nella storia hanno raggiunto fama e onori in vari campi del sapere e dell'arte. Solo che, lontane com'erano da ogni progetto di emancipazione, tendevano a vedere la loro eccellenza come il risultato di un animo più maschile che femminile. La pittrice Artemisia Gentileschi, che operò nella prima metà del Seicento, diceva di sé «di avere lo spirito di Cesare nell'anima di una donna». Le sue opere ci mostrano ritratti di donne forti, come Giuditta che decapita Oloferne aiutata dalla sua ancella, o piene di concentrazione come nel bellissimo autoritratto in veste di allegoria della pittura, del 1638. Ma per giustificare la propria uscita dai ranghi, bisognava pretendere di essere anche una donna diversa, simile più ad un uomo che alle proprie simili. La stessa Elisabetta d'Inghilterra amava definirsi come la regina vergine, dove vergine stava per chi, sottraendosi al matrimonio, era libera e padrona di se stessa. Anche Cristina di Svezia si sottrasse al matrimonio, ed accettò con ironia l'accusa di essere un ermafrodito che le veniva rivolta nelle satire popolari: né uomo né donna, e per questo superiore comunque al suo sesso. Solo molto più tardi, le donne potranno rivendicare l'uguaglianza senza rinunciare al loro sesso.
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