sabato 25 agosto 2007
La nostra natura è incline a vedere solo il male dell'avversario, ad attribuirgli sempre il male, forse anche quello che non c'è. Il male che vediamo in lui dipende spesso dal nostro modo affrettato e meschino di vedere l'uomo.
«Quando vedo un uomo che sbaglia, mi dico che io pure ho sbagliato; quando vedo un uomo sensuale, mi dico: lo fui anch'io un tempo, e così mi sento affine a ciascuno nel mondo». È sempre Gandhi a parlare in questi che sono stati raccolti come i suoi «pensieri», una serie spesso emozionante di brevi e semplici riflessioni. Qui si mette
a fuoco un vizio comune, quello del giudicare gli altri con ferocia, soprattutto quando si tratta di persone a noi antipatiche o considerate come avversarie. Ci sono talora in noi alcune faziosità nel definire un'altra persona così palesi da renderci persino ridicoli, tanto è il furore e l'eccesso con cui liquidiamo chi ci è di ostacolo o semplicemente ci risulta odioso.
Aveva ragione Gesù quando definiva l'occhio «la lucerna del corpo»: se è offuscato, vede tutto l'orizzonte come tenebroso, ma non perché ogni cosa sia oscura, bensì solo perché la nostra visione è coperta da uno schermo opaco (Matteo 6, 22-23). Ecco, allora, un grande esercizio da compiere sulla scia di un altro appello di Cristo: «Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati» (Luca 6, 37). E se vediamo nell'altro uno sgorbio morale, prima di puntare l'indice contro lui, proviamo a ricordare che in quel gesto fisico c'è un significato simbolico suggestivo: stringendo il pugno per indicare l'altro, almeno altre tre dita rimangono rivolte verso di noi, in un implicito atto d'accusa quasi mai immotivato.
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