venerdì 30 luglio 2004
Non senti che io, il Signore, sono nel dolore proprio come il
mio popolo Israele è nel dolore? Guarda da che luogo io ti parlo: dalle spine! Si potrebbe dire che io condivido il dolore dell'uomo. Andiamo un po' controcorrente proponendo queste parole così laceranti e intense che la tradizione giudaica mette in bocca a Dio stesso mentre osserva l'oppressione di Israele sotto il pugno di ferro faraonico (il testo è appunto un libero commento esodico noto come Esodo Rabba' 2, 5). Sì, perché siamo alle soglie delle vacanze e non si ha tempo di pensare al dolore di tante vittime, di persone sole e malate, mentre ci si infila su un'autostrada per le tanto
attese vacanze. Eppure sappiamo tutti che non solo attorno a noi ma anche dentro di noi permane il tarlo di una sofferenza, di un'insoddisfazione, di un'amarezza. Ebbene, questo splendido passo rabbinico sembra condividere appieno la prospettiva cristiana. Dio non rimane come un imperatore impassibile nel suo cielo dorato. Anzi, egli entra pienamente nella realtà che è più specifica dell'uomo, quasi la sua carta d'identità, ossia nel suo male e nel suo dolore. Si pensi all'immagine del Cristo che soffre, che "parla dalle spine" della croce, dell'obbrobrio, del silenzio del Padre. Dio, quindi, decide di rompere il suo isolamento trascendente e di "condividere il dolore" della sua creatura. Aveva ragione il teologo, martire dei nazisti, Dietrich Bonhoeffer, quando affermava: «Dio ci salva non in virtù della sua onnipotenza ma della sua impotenza», divenendo nostro fratello nel dolore e nella morte.
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