Caro Avvenire, la Cisgiordania è occupata da Israele a partire dal 1967. Da allora gli insediamenti nei territori sono continuamente aumentati. Ci sono oltre mezzo milione di coloni che abitano in una zona fuori dai confini riconosciuti a livello internazionale. Strategia questa per impedire la nascita di due Stati. E non si può non provare indignazione per i bombardamenti israeliani su Gaza. Non esiste un problema sicurezza per giustificare queste stragi: in un giorno sono morte 400 persone di cui 160 bambini. Nessuno interviene, nessuno che dica basta. Quando le potenze mondiali di fronte a queste atrocità e alle ingiustizie usano l’arma del silenzio, inevitabilmente diventano complici.
Gualtiero Toniolo
Riva del Garda
Caro Toniolo, quello che ci ha inviato è un editoriale sulla situazione in Medio Oriente, inquadrata nelle vicende storiche degli ultimi decenni. Ho scelto alcune sue affermazioni nette ed esplicite per tornare a ragionare sulla tragedia che si consuma a Gaza. Viene da dire che alcuni Paesi stanno usando ben più dell’arma del silenzio. Nelle università americane non solo si sanzionano severamente le proteste e le marce, ma si sta cercando di vietare attivamente ogni espressione critica verso Israele e di attenzione per la Palestina e i palestinesi. Tale tentativo viene compiuto con il ricatto economico del blocco dei finanziamenti, fino al punto di violare in modo esplicito la libertà accademica, un baluardo delle società democratiche perché fondamento del pensiero critico e non assoggettato ad alcun potere.
In Germania, l’idea di non sostenere Israele è impensabile da parte delle maggiori forze politiche ancora implicitamente animate dal senso di colpa per la Shoah (anche l’Afd è per lo più filo-israeliana, pur avendo un rapporto controverso con l’eredità nazista). Il governo italiano mantiene una posizione molto cauta: non si espone sulle operazioni militari, promuove azioni mirate di aiuto alla popolazione sofferente di Gaza (aveva tuttavia annunciato la sospensione dei fondi all’agenzia umanitaria Unrwa, oggi messa fuorilegge dal Parlamento israeliano). Le principali forze di opposizione si sono riunite martedì per condannare le violazioni del diritto internazionale compiute nella Striscia, un gesto significativo ma che non avrà seguito. Nello scorso maggio, Irlanda, Spagna e Norvegia hanno annunciato congiuntamente il riconoscimento dello Stato palestinese, e il presidente francese Macron ha detto di volerlo fare presto. Ciò non cambia la situazione sul campo.
Il mondo arabo e quello islamico, che dovrebbero essere i più vicini alla causa di Gaza e della Cisgiordania, hanno fatto muro alla proposta israelo-americana di ospitare ampie quote della popolazione attualmente residente nella Striscia per consentire di fatto un’occupazione permanente. Tuttavia, mancano convinte iniziative per impedire che la conta delle vittime si accresca ogni giorno di donne e bambini, mentre i negoziati per una nuova tregua languono anche per responsabilità di Hamas. Sono circolate in questi giorni fotografie di ragazzi scheletrici per la denutrizione, in zone in cui i rifornimenti non possono più arrivare. Immagini che suscitano dolore e sdegno, in aggiunta a quelle che quasi quotidianamente documentano i bombardamenti finiti anche su obiettivi civili.
Nel frattempo, partono ancora razzi verso Israele e l’antisemitismo si manifesta in modo diffuso. Qui veniamo alla complessità di una crisi lacerante e destinata a lasciare una ferita nel nostro senso di umanità. Il pogrom del 7 ottobre 2023 ha manifestato il pericolo esistenziale cui lo Stato ebraico è esposto, unica nazione che altri Paesi hanno l’obiettivo di cancellare dalle mappe (a partire dall’Iran). Il premier Netanyhau è accusato di crimini di guerra dalla Corte penale dell’Aja e contestato in patria, ma nessun leader a Tel Aviv sarebbe un pacifista in questa situazione. Oggi è indispensabile una pressione politico-diplomatica internazionale che comprenda una soluzione praticabile e accettabile, sia essa a due Stati o di altro tipo. E una mobilitazione dal basso che sia dalla parte di tutte le vittime, senza cedimenti all’ideologia e alla provocazione (si veda la manifestazione di sabato scorso). Sì, caro Toniolo, il silenzio è complicità. Adesso più che mai.
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