Stato-Regioni, il Covid induce al chiarimento
domenica 31 gennaio 2021
Il problema del rapporto tra Stato e Regioni è letteralmente esploso durante la pandemia. Anche in questi giorni, con la crisi di governo in corso, le cronache riferiscono quotidianamente di polemiche e conflitti più o meno plateali. Si è soliti indicare l'origine strutturale di questa situazione nella riforma del Titolo V della Costituzione, operata vent'anni fa con la legge costituzionale n.3 del 2001, approvata nel marzo di quell'anno e confermata dal referendum del 7 ottobre successivo. Una riforma che ha introdotto princìpi importanti con l'intento di valorizzare il ruolo delle Regioni e delle autonomie locali in genere, ma che, secondo un giudizio diffuso e trasversale, è rimasta incompiuta. E lo dimostra il fatto che, anche in condizioni ordinarie, il contenzioso tra Stato e Regioni finisca per occupare una buona parte del lavoro della Corte costituzionale. L'assetto disegnato da quella legge è sopravvissuto sia alla riforma Berlusconi del 2005 (quella della cosiddetta devolution), sia alla riforma Renzi del 2016, entrambe respinte dagli elettori, e ora è stato messo a dura prova dalla gestione della pandemia che ha posto con forza l'esigenza di indirizzo unitario a livello nazionale. Del resto proprio la sanità è stato uno dei settori in cui le competenze assegnate alle Regioni dalla riforma del 2001 sono maggiormente cresciute. Con esiti contraddittori e disomogenei che richiederebbero quanto meno una verifica e una messa a punto, a prescindere dall'eccezionalità di questa fase. Quanto alla necessità di una gestione unitaria, però, l'ordinamento attuale già prevede alcuni strumenti normativi che, se attivati, avrebbero potuto evitare o quanto meno contenere le spinte centrifughe che tanto sconcerto hanno provocato anche nell'opinione pubblica. Lo hanno ricordato a più riprese autorevoli giuristi come Cesare Mirabelli e Sabino Cassese. Secondo l'art. 117 della Costituzione, infatti, lo Stato ha l'esclusiva in materia di legislazione sulla «profilassi internazionale» e una pandemia rappresenta proprio il caso di specie. Non solo. L'art. 120 della Carta stabilisce che lo Stato possa sostituirsi alle Regioni e a tutti gli enti locali in caso di «pericolo grave per l'incolumità e la sicurezza pubblica». Se il governo ha deciso di non avvalersi di queste prerogative, dunque, è per una valutazione politica. Sintomo di debolezza dell'esecutivo o ponderata considerazione dei possibili contraccolpi? Forse l'uno e l'altra, con una prevalenza della seconda. I tre quarti delle Regioni sono guidati dai partiti d'opposizione e i governatori leghisti emettono comunicati congiunti come se rappresentassero una sorta contropotere. Non è difficile immaginare che cosa sarebbe accaduto se il governo avesse attivato i «poteri sostitutivi» e di fatto esautorato le leadership locali. L'esecutivo si è limitato invece a impugnare gli atti palesemente contrastanti con le misure nazionali. Del resto, anche alcune Regioni con una maggioranza omogenea a quella nazionale sono entrate in rotta di collisione con Roma. E proprio dall'iniziativa di una di queste, la Valle d'Aosta, si è innescata una dinamica che porterà a un formale e fondamentale chiarimento. Una legge regionale che consentiva attività economiche in deroga alle norme statali, infatti, è stata portata dalla Presidenza del Consiglio davanti alla Corte costituzionale, la cui decisione di merito è attesa per il prossimo mese. Ma intanto la Consulta ha sospeso cautelativamente l'efficacia della legge in questione (è il primo caso del genere) e lo ha fatto richiamando nell'ordinanza la norma costituzionale prima citata sulla competenza esclusiva dello Stato in materia di profilassi internazionale. Ha inoltre affermato «l'interesse pubblico a una gestione unitaria a livello nazionale della pandemia, non preclusiva di diversificazioni regionali nel quadro di una leale collaborazione». Una formula limpida che la politica farebbe bene a recepire.
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