mercoledì 13 aprile 2005
Non c'è speranza senza paura, e paura senza speranza.
Nel 1960 Karol Wojtyla, da due anni vescovo ausiliare di Cracovia, pubblicava La bottega dell'orefice, un'opera teatrale che in seguito sarebbe stata rappresentata in tutto il mondo. Quella che proponiamo oggi è una battuta desunta da quel testo che spontaneamente ci riporta alle parole bibliche con cui Giovanni Paolo II aveva quasi inaugurato il suo pontificato: «Non abbiate paura!». Primaria è, dunque, la speranza, una virtù affascinante ma delicata: non per nulla per raffigurarla simbolicamente si ricorre al verde tenero e fragile dei germogli. Eppure essa è quasi il tramite di sostegno tra le altre due virtù teologali: è alimentata dalla fede che, come dice la Lettera agli Ebrei, è «fondamento delle cose che si sperano» (11, 1), e fiorisce nell'amore.Lo scrittore Wojtyla, allora, ci ricordava che in essa permane il fremito della paura. La speranza, infatti, non è ancora pienezza, è attesa, ed è per questo che vibra anche di timore. Ma è curioso il parallelo che il Papa introduceva: anche la paura non è mai priva di un seme di speranza. Tant'è vero che è stato coniato - sulla base di una frase di Cicerone (Dum anima est, spes est) - il proverbio secondo cui «finché c'è vita, c'è speranza». Basta solo il soffio dell'esistere, anche nell'incubo atroce, per continuare ad attendere una luce e una sorpresa di pace. In ogni tempo - ed è questa l'eredità spirituale di Giovanni Paolo II - è necessario alimentare in noi il respiro della speranza, soprattutto quando la paura sembra prevalere. «La speranza è un rischio da correre. Anzi, è il rischio dei rischi» (G. Bernanos, La libertà perché?).
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