giovedì 31 gennaio 2019

Anche adesso che i muscoli si sono decisamente rimpiccioliti a causa della Sla, e la pelle quindi qua e là "avanza", i miei tatuaggi sono ancora ben visibili e nitidi. Del resto sono molto semplici, piccoli; niente dragoni, e neppure quei complicati arzigogoli colorati che tanto spesso vediamo addosso a questo o quel calciatore. E hanno un loro significato ben preciso. Il primo è un simbolo araldico che in qualche modo, col suo disegno che richiama lo scudo dei cavalieri erranti, vuole rappresentare il mio sentirmi – da sempre – senza radici. E d'altra parte con un padre siciliano e una madre sarda, nato a Napoli quasi di passaggio, cresciuto a Genova, e trasferito a Roma all'inizio dell'adolescenza, avere un po' di difficoltà a definire con precisione le proprie radici, o anche solo rispondere alla semplice domanda "di dove sei?", credo possa essere considerato normale.
Il secondo tatuaggio è una semplice lettera, una "C". Ed è, come facilmente immaginabile, l'iniziale del nome di mia moglie, che in realtà si chiama Maria Cristina ma che io ho sempre chiamato Cri (nonostante le sue proteste, qualche volta). Il problema è che tra nome e cognome si tratta di una roba talmente lunga che sai quando inizi e non sai quando finisci, per cui almeno sul nome è meglio risparmiare. Il terzo, invece, sono alcuni versi di una canzone di Leonard Cohen, Suzanne, per me bellissimi, che fissano in poche, folgoranti parole che cosa leghi due anime per l'eternità. Il quarto e ultimo tatuaggio, infine, è il titolo di un'altra canzone di Leonard Cohen (per chi ancora avesse qualche dubbio, sì, è forse il mio autore preferito, e secondo me il premio Nobel avrebbero dovuto assegnarlo a lui piuttosto che a Bob Dylan). La canzone è Dance me to the end of love, che vuol dire qualcosa come "conducimi a passo di danza fino alla fine dell'amore". Per chi non la conoscesse, consiglio di andarsela a sentire, è indimenticabile, e anche di leggerne la traduzione del testo. La cosa buffa, tornando al discorso dei tatuaggi, è che io non ho mai saputo ballare. Zero totale, la negazione assoluta; io e la danza ci siamo sempre trovati agli antipodi.
Eppure quando oggi Cri mi prende per le mani e, indietreggiando e ondeggiando piano piano le braccia per aiutarmi a tenere l'equilibrio, guida i miei passi incerti, i pochi che riesco ancora a fare, mi sembra per davvero di ballare. E saranno anche, i miei, i passi tardi e goffi di un orso ferito, però per me sono quelli della più meravigliosa delle danze.
(9-Avvenire.it/
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