Si chiama sportwashing e ci chiede occhi aperti
mercoledì 14 dicembre 2022
Siamo a pochi giorni dalla fine di questo Mondiale, uno dei più sporchi di sempre, almeno da quello insanguinato del 1978 in Argentina, quando, esattamente mentre si disputavano le partite allo stadio Monumental di Buenos Aires, a poche centinaia di metri e in tanti altri impianti sportivi, si consumavano torture e assassini degli oppositori del regime del generale Jorge Videla. Il risultato sportivo ancora, per pochi giorni, sarà ignoto, ma non potranno mai più essere ignote le ragioni di una pratica che ormai emerge in tutto il suo esplicito malaffare. Si chiama “sportwashing”, neologismo che identifica quelle azioni che tendono a sfruttare lo sport per ripulire l’immagine di un Paese agli occhi del mondo. Il termine fu coniato da Rebecca Vincent, un’attivista americana per i diritti umani, attualmente direttore delle campagne internazionali e direttrice dell’ufficio del Regno Unito per Reporters sans frontières. Per capire quell’intuizione bisogna riavvolgere il nastro non di qualche giorno, ma di ben sette anni, quando Rebecca Vincent dopo una lunga esperienza sul campo a Baku, in Azerbaigian, denunciò apertamente come i Giochi Europei del 2015, la Formula 1 e perfino la pallavolo fossero stati funzionali allo scopo di costruire, grazie allo sport, una facciata presentabile per un Paese pieno di contraddizioni. Quella denuncia oggi suona come un inascoltato presagio e un disatteso preludio per necessarie e puntuali analisi sullo sport e sul calcio, non solo in Qatar, ma anche in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Bahrain. Per comprendere in che modo inquietante stia cambiando la geopolitica del pallone, non serve essere esperti, né di geopolitica, né di pallone. Basta osservare e magari ragionare un po’. Questo Mondiale fra quattro giorni finirà, le indagini sui «sacchi di denaro» (purtroppo non è una metafora) che sembrerebbero essere serviti a orientare certe scelte faranno il loro corso, le migliaia di lavoratori migranti uccisi dal mancato rispetto dei loro diritti, perché serviva costruire in fretta e furia teatri tanto belli quanto inquietanti per questa messa in scena, scompariranno dalla nostra memoria e in Qatar, probabilmente, il tema dei diritti civili, una volta che il circo avrà spostato il suo tendone, tornerà a essere un gigantesco buco nero. Una squadra, domenica, festeggerà la vittoria di un trofeo che, come poche altre volte nella storia del calcio, sarà enormemente pesante da sollevare. A noi resterà di decidere come, quanto e cosa siamo disposti a sopportare. Perché se c’è una cosa che non sarà più come prima, dopo le vicende che hanno coinvolto prima la Fifa e ora addirittura il Parlamento Europeo, sarà quella di continuare a far finta di non sapere o di non vedere. Non che prima ci fossero dubbi, ma questo Mondiale ha definitivamente sancito il fatto che il calcio è politica. Può esserlo nel senso più bello del termine e può esserlo nel significato deteriore e squallido che, purtroppo, a questo termine viene sempre più spesso associato. E a leggere, come successo pochi giorni fa, che il Qatar avanzerebbe l’ipotesi di una candidatura per i Giochi Olimpici del 2036 promettendo l’aria condizionata anche lungo gli oltre 42 chilometri del tragitto della maratona, viene freddo. © riproduzione riservata
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