sabato 25 giugno 2022
Di un medico si dice che la sua non è una professione, ma una missione. E le troppe vittime in camice bianco durante la pandemia ci hanno ricordato, e ci ricordano, quanto questo sia vero. Secondo il medesimo metro, lo stesso si può dire anche per molti altri mestieri, infermieri, vigili del fuoco, insegnanti... Chiunque abbia avuto a che fare con una di queste categorie sa riconoscere, quasi a fiuto, chi quel lavoro lo fa solo per sbarcare il lunario, e chi lo fa con vera passione, come si sentisse investito, appunto, da una missione. Ma questo può valere anche per i giornalisti? A guardarsi intorno con un minimo di disincanto, non si direbbe. Quelli che si definiscono con orgoglio i “cani da guardia della democrazia” sembrano molto più interessati al padrone che li tiene al guinzaglio piuttosto che alla democrazia che dovrebbero proteggere. Auto-referenzialità, narcisismo, approssimazione sembrano oggi farla da padroni, e dove sia la verità è diventata una mera opinione. Tutto questo genera solo crescente ignoranza, che vediamo fiorire di giorno in giorno attorno a noi. Perché se è vero che l'informazione in sé non è cultura, e anche vero che non può esistere una cultura disinformata, in quanto è la circolazione delle idee a far crescere la cultura, e se circolano idee monche, azzoppate, settarie, fasulle o addirittura false, è facile capire con quanta facilità lieviti l'ignoranza. E quanto sottile, quasi impalpabile, diventi il confine tra la stampa dei Paesi liberi e quella che deve sottostare alle varie dittature, dichiarate o di fatto (e anche questa è qualcosa che possiamo vedere tutti i giorni con la guerra in Ucraina).
È vero, ci sono sempre «difficoltà nel comunicare bene, e nella comunicazione c'è sempre anche qualche pericolo di trasformare la realtà», ha detto Papa Francesco lo scorso fine settimana, ricevendo i partecipanti all'XI Capitolo Generale della Società San Paolo. Così poi, come nella favola di Cappuccetto Rosso, va a finire che «uno racconta, comunica all'altro questo, questo lo comunica a questo, a quell'altro e quell'altro e a giro, quando torna, è come Cappuccetto rosso, che incomincia con il lupo che vuole mangiare Cappuccetto rosso e finisce con Cappuccetto rosso e la nonna che mangiano il lupo. No, non va la cosa! Una brutta comunicazione deforma la realtà».
Per fare buona comunicazione, questa dev'essere «pulita» ed «evangelica». Bisogna essere, in altre parole, dei veri «apostoli della comunicazione», ha detto Bergoglio. E ha spiegato: «Se noi prendiamo i mezzi di comunicazione di oggi, manca pulizia, manca onestà, manca completezza. La dis-informazione è all'ordine del giorno: si dice una cosa ma se ne nascondono tante altre. Dobbiamo far sì che nella nostra comunicazione di fede questo non succeda, non accada, che la comunicazione venga proprio dalla vocazione, dal Vangelo, nitida, chiara, testimoniata con la propria vita».
Per questo non è necessario solo comunicare, ma bisogna anche «redimere la comunicazione dallo stato in cui è oggi, nelle mani di tutto un mondo di comunicazione che o dice la metà, o una parte calunnia l'altra, o una parte diffama l'altra, o una parte sul vassoio offre degli scandali perché alla gente piace mangiare scandali, cioè mangiare sporcizia. Non è vero? È così». Serve una comunicazione «pulita, chiara, semplice». Perché il giornalismo, prima che una professione, «è una vocazione, e la vocazione ti dà l'identità» Solo così la «comunicazione sarà poesia del comunicare bene».
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