Senza avere visto
martedì 28 gennaio 2025
Il maestro incontestato della beatitudine, del pensiero folgorante sulla felicità, è ovviamente Gesù, che ne fa una forma privilegiata del suo insegnamento. È infatti proprio con una beatitudine che conclude, dopo la sua risurrezione, il suo insegnamento terreno. «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!», dice a Tommaso che ha dubitato e superato i suoi dubbi toccando le piaghe del Risorto (Gv 20,29). Una beatitudine che non è per lui, poiché ha visto, ma proprio per noi che non abbiamo quella fortuna. Ma dov’è il rapporto con la felicità? Se non si tratta di un semplice premio di consolazione per chi è arrivato troppo tardi, allora abbiamo qui una lezione inattesa. La felicità non è vedere, toccare, prendere possesso del Cristo risorto. Non è mettere le proprie dita nelle sue ferite, senza pudore, senza rispetto. Non è afferrare le cose o le persone; non è possedere, un oggetto o un corpo. Presuppone al contrario di intravedere, di cogliere, di comprendere ciò che non è visibile, che non si può prendere con le mani. Di mettersi al diapason di ciò che non si vede, non si tocca, e che nondimeno dà senso al mondo: quell’amore di Dio senza il quale le apparizioni del Risorto sarebbero un trucco magico e senza il quale la nostra stessa vita perderebbe il suo senso e il suo sapore. © riproduzione riservata
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