giovedì 14 febbraio 2019
Chi esercita la professione di psichiatra o di psicoterapeuta mette al centro del proprio lavoro la necessità di "capire". Ogni persona è un mondo complesso e delicato, collegato con fili molteplici e talvolta intricati alla vita degli altri; in questa prospettiva qualsiasi comportamento, anche quando non condivisibile, può diventare comprensibile se letto all'interno di una storia che è sempre unica e singolare. L'esperienza insegna che chi lavora sulla propria storia trova sempre necessariamente dei collegamenti tra le sue difficoltà e i comportamenti degli altri; ecco allora che, se non si presta attenzione, la responsabilità di ciò che siamo e di come ci comportiamo si sposta insensibilmente fuori di noi: a partire da nostro padre e nostra madre che, con i loro limiti, le loro mancanze di amore, i loro errori, sono spesso individuabili come ciò che ha condizionato l'insorgere delle nostre fatiche e dei nostri errori.
I nostri sbagli e le nostre insufficienze diventano allora non solo comprensibili, ma anche giustificabili, perché trovano la loro origine fuori di noi, in questa catena senza fine delle responsabilità. Ma davvero tutto ciò che si può capire si può anche giustificare?
Temo che una diffusione impropria e superficiale di concetti psicologici complessi abbia finito poco alla volta con il mettere in crisi nel sentire comune il tema cruciale della responsabilità personale, sia nella vita familiare sia nella vita sociale.
Nella vita familiare, è diventato difficile per i genitori far capire ai figli la necessità di imparare a rispondere delle proprie azioni: non è raro oggi trovare genitori che continuano ad addossarsi la responsabilità per i comportamenti di figli ormai grandi, così come è molto frequente che i figli diano ai genitori la colpa dei propri insuccessi o la responsabilità per le distorsioni del proprio carattere.
Ma anche nelle relazioni tra pari, come nella coppia, quando si verifica una crisi è sempre l'altro ad avere sbagliato e l'attenzione è tutta concentrata sulle sue manchevolezze, che diventano causa e origine unica delle nostre legittime "reazioni".
Sul piano dei comportamenti sociali, questo spostamento della responsabilità fuori di sé rappresenta un modello ormai molto diffuso, che ha dato origine a una prassi che segue la logica inesorabile della colpa: in ogni lite, in ogni conflitto, in ogni incomprensione, ciò che conta è sempre più trovare un colpevole, che ci permetta di sfuggire il confronto con la complessità e ci esoneri dalla necessità di cambiare.
Trovare un colpevole per ciò che non funziona o fa soffrire rappresenta, per la psiche, un immediato sollievo; combattere il male fuori di noi è certamente più facile e meno doloroso che individuare il nostro coinvolgimento, cosa che richiederebbe di assumerci la responsabilità di noi stessi e delle nostre azioni.
Eppure, la vera libertà consiste proprio nel prendere la responsabilità di se stessi: di imparare a rispondere, per le proprie decisioni, solo a se stessi.
Per questo, quando veniamo da una storia difficile, libertà è prendere in mano la situazione oggi e scegliere di lasciare andare il passato, per vivere nel miglior modo possibile il presente; davanti a qualcuno che ci insulta, libertà è decidere, se lo vogliamo, di non rispondere con l'insulto. Davanti a una malattia o a un lutto, libertà è scegliere come continuare a investire nella vita; davanti a qualcuno che ci fa torto, libertà è decidere di rimanere corretti e non rendere male per male.
Se lo vogliamo, in ogni momento della vita ci è data di nuovo questa libertà: di correggere ciò che abbiamo sbagliato, di lasciar andare via ciò che ci ha ferito, di dimenticare i torti, di godere pienamente del tempo presente. A patto che smettiamo di addossare agli altri la nostra responsabilità.
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