venerdì 12 febbraio 2016
Rileggo periodicamente Rimbaud. Quanti sono i giovani che lo leggono e meditano, e condividono la sua sete di assoluto e la sua rivolta contro i valori della società borghese? Generazione dopo generazione, si continua ad aspettare un nuovo angelo di verità che dica il vero e lo pratichi, che guardi al mondo con amore scandalizzato, ma esigente e amoroso, nella rivelazione della sua bellezza come della sua bruttezza, e che lo faccia senza nessuna concessione al proprio ego, senza quella spinta all'autoaffermazione che caratterizza oggi quasi tutti gli intellettuali e artisti o presunti tali. È la corsa a una qualsiasi forma di successo la molla che guida decine centinaia migliaia di giovani, in un mondo in cui è altissimo il numero di chi ha studiato e in cui ai giovani non si offrono lavori concreti ma le illusioni di un terziario fatto di chiacchiere scritte o dette, di immagini e di suoni facilmente riproducibili, e i modelli sono quelli di chi «ce l'ha fatta» e dice o è detto sulle pagine delle gazzette e dentro lo schermo delle tv dei video dei computer dei cellulari. A questa sorta di imposizione ambientale che cattura una gran parte dei giovani, si aggiunge da tempo una particolare deviazione della psicologia collettiva, indotta dal tipo di società (che noi adulti siamo i primi ad accettare) che essi non mettono in discussione nei fatti, e solo alcuni a parole. Io la chiamo orgoglio, col vecchio nome di un «peccato» che considero, per un giovane che si apre all'età adulta, oggi il più mortale di tutti. Questa malattia colpisce in particolare coloro che hanno ambizioni intellettuali, e li perde e costringe in una sorta di parodia dell'individualismo: io penso, scrivo, recito, filmo, disegno, canto, o semplicemente mi faccio un blog – una droga la cui diffusione è al massimo – e mi basta questo per illudermi di essere qualcuno. L'eccesso di amor proprio produce persone antipatiche e nefaste. In un'epoca in cui gli intellettuali adulti fanno lo stesso (e di conseguenza contano meno di niente nell'opinione di chi detiene il potere, che li considera come servi di cui è facilissimo comprare mente e anima), l'individualismo di cui ci si illude è una finzione risibile, è una parodia. Milioni filosofano e creano ma la loro critica dell'esistente è mera finzione, è accettazione e non critica. Si è pensato tanti anni fa a un «potere giovanile», a «i giovani come classe», si disse quando il loro disagio divenne azione e rivolta; ma sono tempi lontanissimi, di quando si pensava ancora di poter incidere sulla Storia. Poi anche il '68 si è sciolto come neve al sole, e quel che resta, nella società più massificata che mai si sia vista, è la parodia dell'individualismo, una truffa in cui i giovani – soprattutto quelli che non hanno sofferto o visto soffrire e che non sanno guardare e confrontare – sono una turba di io fasulli. Tra i quali, sì, è però giusto e indispensabile continuare a sperare nella lucidità, nella passione, nella compassione di un nuovo Rimbaud.
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