venerdì 4 maggio 2018
Si svolge in questi giorni a Nuoro un piccolo festival del “cinema del reale”, come si ama chiamare oggi il cinema documentario, che comporta un omaggio a uno dei più grandi registi del nostro cinema, Vittorio De Seta (1923-2011), che negli anni '50 ha diretto i più bei documentari di quel decennio, veri e propri poemi sulla vita dei contadini e dei pescatori e dei pastori di allora, tra Sicilia Sardegna Calabria, e di uno dei più bei lungometraggi di quella straordinaria fioritura di capolavori che furono gli anni del miracolo economico, i primi anni '60, Banditi a Orgosolo. Del film, e della sua realizzazione, e della sua importanza si parlerà a proposito di un saggio che gli ha dedicato Antioco Floris. Il film venne girato sul Sopramonte di Orgosolo in modi piuttosto avventurosi nel 1960 e presentato a Venezia, se non erro fuori concorso, avendo a confronto, sempre se il ricordo non mi inganna, altri giovani esordienti fuoriclasse e fuori concorso come il Pasolini di Accattone e l'Olmi del Posto. Le borgate romane e il loro sottoproletariato, i giovani lombardi del boom, i pastori sardi avevano trovato cantori formidabili, che sapevano guardare in faccia la realtà e le vecchie e le nuove alienazioni, tuttavia in un'epoca di grandi speranze. Lo sguardo di quei registi non era compiacente né prevenuto, e però il “vero” vi aveva la profondità della poesia e non era solo documento. (Fa una certa impressione ricordare che, come Pasolini, anche De Seta meditò un film su Gesù e uno su San Paolo.) De Seta aveva elaborato il suo progetto partendo dalla fondamentale raccolta di testimonianze di un giovane antropologo, Franco Cagnetta, allora ventottenne, legato a Ernesto De Martino e dentro la necessità avvertita fortemente dalla cultura italiana del dopoguerra di scoprire cos'era davvero il nostro paese. Partendo dal Cristo di Levi, erano venute le inchieste e le storie di vita dei contadini del Sud di Scotellaro, dei minatori maremmani di Bianciardi e Cassola, dei disoccupati di Partinico e Palermo di Danilo Dolci, dei vagabondi della “leggera” di Montaldi e degli immigrati da sud a nord di Alasia, ma anche le raccolte di fiabe di Calvino e di canti popolari di Pasolini, gli artisti de “la piazza” e del circo di Leydi, i “copioni da quattro soldi” di Pandolfi, le storie degli emigrati nostri in Brasile di Passeri, eccetera, mossi tutti dalla volontà di studiare il paese e le sue verità a partire da quelle più nascoste, dopo gli anni delle censure. Le storie dei banditi di Cagnetta comparvero in un numero speciale della rivista di Carocci e Moravia “Nuovi argomenti” (1954) sui banditi di Orgosolo, mentre un ottimo giurista sardo, Antonio Pigliaru, elaborava il suo studio sulla «vendetta barbaricina». Il numero della rivista romana venne sequestrato e i suoi direttori e il suo autore vennero processati su denuncia del ministero dell'Interno per vilipendio dell'amministrazione dello Stato. Seguendo Cagnetta, De Seta collocò l'adulto e il bambino suoi protagonisti in un contesto che documentava sia le tradizioni arcaiche, secolari, del banditismo sardo che le evidenti ingiustizie sociali da cui anche nasceva. Rileggere Cagnetta (e gli altri testi che ho ricordato) e rivedere il film di De Seta (e gli altri citati) può essere un buon esercizio di memoria per capire da dove veniamo, ma anche, probabilmente, per capire qualcosa di più della nostra storia e della enormità della mutazione che stiamo vivendo, molto più radicale di quella del boom, e altrettanto culturale e “mentale” che sociale, e per capire qualcosa di più delle condizioni di vita da cui tanti immigrati sono fuggiti.
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