venerdì 8 marzo 2019
Una delle constatazioni più assidue e più deprimenti che ci vengono dall'incontro con persone che ci somigliano in quanto a idealità e a esperienze nel cosiddetto "sociale", e penso soprattutto ai giovani delle ultime generazioni, è il loro ossessivo bisogno di rassicurazioni e di conferme. Hanno fatto delle scelte che per tanti sono davvero scelte di vita - anche se a volte non si è trattato di vere e proprie scelte, perché condizionate dalla scarsità o assenza di altri possibili lavori in un mercato che non dà spazio ai giovani e che spiega perché tanti di loro finiscano per cercare la loro strada altrove, emigrando. Fanno cose utili, ma, mi parte, con un certo grado di mistificazione, perché nei modi di ragionare che hanno acquisito dalle mistificazioni di un'educazione famigliare o ambientale, finiscono per pensare che quel che fanno è fondamentale, e non possa essere messo in discussione cercando di collocarlo su un più ampio sfondo di problemi, diciamo così, epocali. Sono stati insomma abituati da tutto un sistema educativo attuale a non mettersi in dubbio, a pensare che quel che fanno è la cosa giusta solo perché sono loro a farlo, e reagiscono molto male quando gli si fa osservare l'incompletezza, i limiti che la loro scelta comporta rispetto a bisogni più generali, dentro un più vasto quadro di riferimenti sociali, politici, storici, religiosi... Rispetto all'epoca in cui ci troviamo a vivere. Li si capisce: per poter resistere, in una società che non è mai stata così nemica del giusto e del vero, devono farsi forti dicendosi che quel che fanno e pensano è, per l'appunto, giusto e vero... Ne deriva però una grande povertà del loro quadro di riferimenti, una sicurezza che al primo colpo di vento può dimostrarsi fragilissima. Dagli altri, cercano conferme e non dubbi, e quando gli si obietta che il loro quadro di riferimenti, e di conseguenza quel che fanno è debole, la loro incidenza minima, le loro convinzioni forzate, la loro autostima eccessiva, o si chiudono a riccio e non vogliono ascoltare o si difendono con il classico "io penso che" dell'era del narcisismo. Ah, quanto aveva ragione Christopher Lasch, quando provò ad analizzare adeguatamente la nuova cultura del «dopo le lotte», negli anni Settanta del Novecento e la sua soddisfatta incapacità (e il rifiuto) di voler ancora lottare per cambiare qualcosa nel brutto mondo in cui viviamo! Il poco che faccio è giusto, difendo le mie ragioni rifiutando di vederlo in un contesto più vasto, appunto storico e politico. Guai ad accettare che la realtà è più complessa di come la vediamo dal nostro piccolo impegno! E tappiamoci le orecchie di fronte a chi propone analisi e dice cose che possono metterci in crisi. Basta col dialogo, meglio il soliloquio ovviamente gratificante: «Chi gioca solo non perde mai», si diceva un tempo in Sicilia. Ma è proprio così che il sistema attuale ci divide, ci controlla, ci neutralizza.
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