giovedì 28 novembre 2019
La scoperta dell'infelicità è un passaggio fondamentale nella crescita di ciascuno. È il momento in cui si capisce che non esistono le favole, che le cose della vita non hanno necessariamente un lieto fine, che le lacrime possono pesare come pietre e scavare buchi che non guariranno. In genere si scopre l' infelicità all'inizio dell'adolescenza, e a innescare il processo possono essere mille ragioni. Ricordo bene la mia scoperta dell'infelicità: avevo 12 anni e stavo a un campo estivo con gli scout, un giorno i capi lanciarono un gioco che neppure ricordo. Ricordo invece che stavamo in un bellissimo bosco e che dopo pochi minuti venne fischiata la fine. Strano. In quel momento, come molti altri, stavo in cima a un albero; scesi di corsa e capii cos'era successo. Anche Andrea, un anno più grande, s'era arrampicato, ma era caduto. L'avevano portato all'ospedale e stava male. Tornammo alle tende un po' scossi, ma non tanto preoccupati: succede, di cadere. Per quella sera e il giorno dopo non ci furono attività, molti capi andavano e venivano. Nel campo c'era un'atmosfera irreale. La mattina del terzo giorno al cerchio iniziale c'erano tutti i capi, compreso padre Giulio, "Zambo", il nostro assistente spirituale che non avevamo più visto dall'incidente. Fu lui a parlare. «Andrea ci ha lasciati stanotte. Adesso diremo la Messa, per pregare per lui e ringraziare il Signore di averci dato la gioia di condividere con lui un tratto della vita». Ringraziare per cosa, se un mio, un nostro amico era morto e non l'avremmo più rivisto? Ci sono voluti anni per capire le parole di Zambo. Sarei dovuto crescere, e imparare che la vita non è una bella passeggiata, solo gocce rade di gioia in un oceano di fatica e disillusioni, e che la felicità, almeno per come comunemente la si intende, è una conquista quotidiana. È un impegno che dobbiamo sentire verso la vita, è essere capaci di ringraziare per quello che si ha piuttosto che recriminare per ciò che ci manca. Forse è anche per questo che, quando ho saputo di avere la Sla, non ho tirato giù tutti i santi del calendario. Con Zambo sono rimasto sempre in contatto, e posso ancora sentire il suo «ciao Salvato', come stanno le bambine?» in romanesco. Gli ultimi anni era provatissimo, doveva sottoporsi a tre sedute di dialisi ogni settimana in attesa di un trapianto che non avrebbe fatto in tempo ad arrivare. Certi giorni si sentiva così fiacco che neanche riusciva ad alzarsi dal letto. Non una sola volta l'ho sentito lamentarsi, né rivolgersi a me senza sorridere. Ciao Zambo, e grazie. Ci vediamo.
(26-Avvenire/rubriche/slalom)
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