
Bene lo ha detto la teologia scolastica: la felicità dell’uomo, la sua beatitudine perfetta, nasce dalla visione di Dio nell’aldilà, visione detta “beatifica”. Quando, nel corso di una visione grandiosa, il profeta Isaia vede Dio apparirgli davanti, è al contrario una disgrazia quella che egli paventa: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure, i miei occhi hanno visto il re, il Signore dell’universo!» (Is 6,5). Questo, perché l’incontro con il Dio tre volte santo è come la rivelazione, per contrasto, della propria indegnità; la scoperta della propria debolezza appare al profeta come una pessima notizia, il principio della sventura. È questa convinzione che ci spinge a tenere Dio lontano affidandolo a personale qualificato, a rinchiuderlo in santuari specializzati, da dove non verrà a metterci sotto il naso che noi non siamo all’altezza.
Affermando che il Regno di Dio è vicinissimo a noi, circondandosi di pubblicani e di prostitute, Gesù ci dice il contrario: l’esperienza del Regno è esperienza della misericordia – cioè, dell’amore di Dio ricevuto proprio là dove noi ci credevamo più indegni di lui. L’unica condizione per seguirlo, l’unica qualità richiesta, è proprio essere peccatori, essere indegni. Beato colui che cammina dietro di lui!
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